I ragazzi delle case INCIS cap 7°


 Capitolo 7°  Scuola, maestra di vita


La scuola, naturalmente, aveva un ruolo fondamentale nella vita dei ragazzi. Loro malgrado, perchè era opinione unanime che le ore del mattino, chiusi in un aula triste e grigia, fossero un furto al loro diritto al gioco. O peggio, una condanna per colpe mai commesse. Questo è il prezzo da pagare  per entrare nella società degli adulti, come diceva il Signor Maestro. Lucianino poneva a se stesso e agli altri delle strane domande.

- E se uno non vuole entrare ?- Il quesito filosofico aveva sempre la stessa risposta.

- Questo è scemo.-

Era uno spettacolo, vedere tutte le mattine dei giorni feriali, una colonna di bambini di tutte le età che, come un orda di barbari sconfitti, si avviava lentamente verso la scuola. Malgrado la distanza (oltre due chilometri i più lontani), le scuse di ogni genere (- Mi fa male la pancia.- Mi viene il vomito della nausea.-), i capricci del tempo (-C'è un metro di neve ghiacciata.- La strada è allagata dalla pioggia), il passo strascicato, le continue fermate (-Sta per passare una macchina.- Dove?- Là, in fondo.-), alle otto e venticinque i ragazzi si ritrovavano regolarmente davanti ai cancelli d'ingresso. Le mamme ne sanno sempre una più del diavolo.

Al gruppo che partiva dalle case INCIS, strada facendo, si aggiungevano altri bambini dalle strade laterali, come affluenti che vanno ad ingrandire il fiume principale. Alcuni erano solo compagni di viaggio, altri diventarono nuovi amici. Come Miriam, una bambina dai lunghissimi capelli castani sciolti sulla schiena come una cascata. Aveva gli occhi di un color verde luminoso, come il fiume a primavera, quando le fronde dei salici si sporgono sulle acque trasparenti.

- Quella è pazza di te.- Giulio Cesare si divertiva a torturare Leandro che replicava con un debole:

-Non mi interessa.- Un giorno Miriam invitò i due amici per festeggiare il suo compleanno: dieci anni. La bambina abitava in una villetta in stile Liberty, in un viale laterale, a metà di via Monte Grappa. Era conosciuta da tutti i bambini come la casa dei glicini perchè una parte della villa era ricoperta da una rigogliosa pianta che, partendo da una falda del tetto scendeva ad avvolgere quasi tutta la facciata e gran parte della recinzione con un effetto scenografico da casa delle favole. Tutti i bambini ne restavano incantati. Poi, passato il momento di meraviglia, cominciavano a strappare i fiori e a succhiarli. Erano un ottima alternativa ai soliti fili d erba.

Giulio Cesare non stava nella pelle al pensiero delle cose buone da mangiare. Leandro si sentiva nervoso. I due amici rubarono alcune viole da un giardino vicino a casa e si presentarono alla festa puliti e ben pettinati. Giulio Cesare si buttò sul tavolo dei dolciumi, facendosi largo con spinte e gomitate. Leandro si ritrovò solo in giardino con Miriam. Seduti su un divano a dondolo, all'ombra di un pesco in fiore, i due bambini sembravano lontani mille anni luce dalla festa rumorosa che si svolgeva a pochi metri. Poi Miriam prese una mano dell'amico. A Leandro s'incendiarono le guance. La bambina gli appoggiò le labbra sulla bocca scoccando un piccolo bacio. Leandro, sorpreso e intimidito, si bloccò come una statua di pietra mentre i suoi pensieri scoppiavano in mille pezzi nella mente. E mentre cercava disperatamente una pronta risposta alla imprevista ma piacevole situazione, Giulio Cesare spuntò dall'ombra.

- Sorpresa !- Aveva in una mano una fetta di torta, nell'altra un bicchiere d'aranciata e sul volto e sulla camicia i segni di una dura battaglia. Miriam scrutò l'intruso con un espressione di disgusto mista a rabbia poi si alzò e si allontanò dai due.

- Ti ho salvato, eh! -

- Sei uno stronzo, io..-

- Tu cosa? Ti conosco bene. C'è un altra ragazza nei tuoi pensieri.-

- Ma va in mona!- Dopo quel giorno Miriam si mostrò alquanto fredda e col tempo l'amicizia svanì. Leandro ne fu molto dispiaciuto. Si era trovato ad un nulla da un momento magico ed non era riuscito a coglierlo. Gli capitava sempre, con le cose belle.

All'incrocio con porta Santi Quaranta (- Uffa! Non sono i quaranta ladroni di Alì Babà.-) il gruppo dei bambini (una cinquantina) si divideva. I più grandi controllavano che i loro fratelli minori entrassero nella scuola elementare poi, terminato il lavoro di pastori del gregge, anche loro si richiudevano dentro il grigio ed enorme caseggiato della scuola media, a pochi metri di distanza. Raramente i genitori accompagnavano i bambini, bastava la predica prima della partenza. Ogni mattina la stessa cerimonia: raccomandazioni, consigli, minacce (ai più grandi). Le mamme controllavano tutto. D'inverno, quando il freddo ti spingeva in fondo al letto sotto le calde coperte, i quattro palazzi rimbombavano di cento voci gentili e materne come sergenti.

- Fuori dal letto !-

Facile a dirsi. Seguivano battaglie rapide e ferocissime che si concludevano regolarmente con la sconfitta dei bambini, convinti da urla e qualche ceffone. Tutti i bambini avevano un unica certezza: le mani delle mamme sono molto pesanti. Un tazzone di caffelatte incandescente buttato giù a forza, un biscotto che finiva metà in bocca e metà nel naso erano la rapida colazione e poi fuori in strada. Coperti da pesanti cappotti che coprivano fino al ginocchio e lasciavano le gambe nude fino ai calzettoni (eternamente in discesa libera), fasciati da sciarpe, di lana ruvida come una grattugia, che scoprivano solo gli occhi, con guanti di lana cuciti e ricuciti sulle punte delle dita. Il tutto riciclato dai fratelli maggiori, i ragazzi erano pronti per l'incontro con la cultura. Questo d'inverno naturalmente. A primavera i tempi di vestizione erano più celeri ma quanto era lungo l'inverno.

A scuola la vita era sempre uguale: ripetitiva e noiosa. Le classi, rigorosamente divise per sesso, erano numerose il primo anno ma si riducevano drasticamente durante i cinque anni di corso. La selezione cominciava già con l'esame di terza elementare quando molti bambini non avevano ancora imparato a leggere e a scrivere perchè impegnati a fare spaghetti sui loro quaderni. La scuola per tutti era ancora lontano da venire e l'insegnamento prevedeva anche una serie di provvedimenti disciplinari per i più restii ad apprendere. Si partiva dalle bacchettate sulle mani(e i righelli erano di legno pieno) allo scrivere sulla lavagna:

- Io sono un asino.-

I banchi erano a due o quattro posti, secondo la sfortuna, in legno massiccio con calamaio incorporato. Stretti e scomodissimi, hanno causato più scoliosi di quanto i medici sapessero diagnosticare a generazioni di scolari. Il piano di lavoro, dipinto con vernice nera, era sempre pieno di incisioni, graffi, buchi, parole e disegni. Ogni scolaro, nel tempo, aveva lasciato un ricordo di se. Due libri, due quaderni dalle copertine nere, uno a righe e uno a quadretti che diventavano sempre più stretti e più piccoli col passaggio alle classi successive, uno o due pennini di forma romboidale da inserire in una canna di legno, un foglio di carta assorbente. Questo era il corredo minimo di uno scolaro nei primi anni cinquanta. Dimenticavo la cartella. In cartone pressato e colorato per tanti, in finta pelle per i benestanti. Qualcuno niente.

I più ricchi possedevano una collezione di pennini di varie forme che non servivano a nulla ma facevano morire d'invidia gli altri bambini. Leandro sognava di avere tutta una serie di pennini  dalla forma lunga e sottile, di un color acciaio brunito come la canna di un fucile, che scrivevano benissimo, quasi da soli. La elle e la emme sembravano un disegno gotico per non parlare della effe e della gi. Il voto in bella calligrafia aumentava solo con quei pennini ma chi poteva permetterseli. Lui no.

La rigorosa programmazione scolastica era vivacizzata da avvenimenti importanti  come, per esempio, la giornata per la lotta contro la tubercolosi, che consisteva in una predica (sempre uguale) del direttore e nell'obbligo d'acquisto di almeno due francobolli (cinquanta lire l'uno) stampati ogni anno apposta per l'occasione. Gabriele, il figlio del dottore ne comprava sempre molti più degli altri suscitando le perplessità del suo compagno di banco, accanito filatelico (- Vuol dire collezionista di francobolli- spiegava in continuazione ai compagni eternamente ignoranti). I francobolli, in realtà, non avevano nessun valore filatelico e non potevano essere usati per l'affrancatura. I bambini non capivano perchè dovevano spendere soldi buoni per comprare dei pezzetti di carta dentellata, brutti e inutilizzabili.

- Dobbiamo riflettere sull'importanza della salute.- Pontificava il figlio del dottore, degno erede di cotanto padre. I compagni guardavano i disegni dei francobolli, che rappresentavano sempre  bambini morenti o miracolati e si toccavano le parti basse.

Una volta all'anno c'era la festa degli alberi. Bisognava scrivere un tema sull'argomento e il migliore veniva premiato con un libro (sugli animali e ancora e sempre animali) e un diploma in finta pergamena. Era sempre il figlio del dottore a vincere. Ogni anno diventava sempre più bravo, più bello e più stronzo. Quando le sue composizioni venivano lette in classe dal maestro, Gabriele assumeva un espressione di superiorità e di beatitudine tale che gli avevano fatto guadagnare l'appellativo, appunto, di arcangelo Gabriele. Quelli delle ultime file, incidevano sul legno del banco la loro opinione non proprio favorevole.

Un anno capitò un avvenimento unico e straordinario: la giornata del risparmio. Una banca locale aveva preso l'iniziativa di regalare a tutti i bambini della scuola elementare un libretto di risparmio. Erano venuti dei signori importanti, vestiti di grigio con camicia bianca e cravatta, e accompagnati dal direttore, avevano visitato ogni classe, distribuendo un libretto in cartoncino marrone personalizzato col nome dei bambini. Poi avevano parlato dell'importanza di depositare i loro soldini in banca perchè, grazie al risparmio, potevano costruirsi un futuro migliore. I bambini non avevano capito molto ma avevano applaudito perchè il Signor Maestro era mezz'ora che faceva segnali con gli occhi e con varie smorfie che tutti avevano trovato molto divertenti.

La cifra segnata nel libretto era minima, dovevano essere i genitori a fare, in seguito, ulteriori versamenti. Leandro si ritrovò con un tesoro di mille lire. Suo padre, che se n'intendeva, gli fece una lunga e noiosissima lezione di economia. Parlò di interessi, di percentuali e altre cose non sempre comprensibili. Dopo un anno la cifra depositata divenne di 1100 lire. In un anno aveva guadagnato dal suo investimento 100 lire, il 10%, senza fare niente. Leandro fece qualche conto di quanti soldi avrebbe avuto al compimento dei 21 anni, quando sarebbe diventato maggiorenne. Forse c'erano sistemi migliori per diventare ricchi.

Ma l'appuntamento più temuto dai bambini era un altro. Una volta l'anno, per disposizione del Ministero della Sanità, in tutte le scuole d'Italia, veniva somministrato agli scolari un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo come prevenzione di non si sa quali malattie. Il giorno fatidico in tutta la città c'era un clima da strage degli innocenti. Le mamme lasciavano le loro abituali occupazioni casalinghe e i padri non andavano a lavorare perchè impegnati a trascinare i figli a scuola. Davanti al portone dell'istituto frequentato da Leandro e compagni, si assisteva a scene strazianti che avrebbero commosso il feroce Saladino. I genitori no, duri e irremovibili.

- E' per la tua salute.- Dicevano tutti ma la spiegazione non bastava a calmare i bambini. Chi si buttava per terra, chi si aggrappava alla gamba del padre con presa ferrea. Qualcuno provava a fuggire ma veniva bloccato da un cordone di genitori disposti a semicerchio. Tutti piangevano, qualcuno pregava. Le promesse si sprecavano. Chi sarebbe diventato buono e ubbidiente per sempre, chi spergiurava che avrebbe fatto i compiti e studiato giorno e notte. Un bambino grasso e roseo come un porcellino da latte rinunciò a dolci e a caramelle per cinque anni. Una bambina ricca, bionda e bella come un putto di Raffaello, promise che avrebbe regalato tutte le sue bambole alle bambine povere. Anche il figlio del dottore aveva perso la sua alterigia e, con gli occhi gonfi di lacrime, chiedeva perdono anche delle marachelle future. Solo pochi, distrutti dal terrore, non reagivano e si offrivano inerti e passivi come agnelli pronti ad essere sacrificati.

Poi il portone si chiuse alle spalle dei bambini e, all'interno della scuola, cominciò la caccia ai fuggitivi. Insegnanti, bidelli e anche qualche genitore volontario (- Traditori !-) frugavano ogni angolo della scuola e i bambini venivano recuperati e portati sul patibolo. Leandro e Giulio Cesare si erano nascosti nella legnaia, dietro i sacchi di carbone. Inutilmente, un bidello andò a colpo sicuro e li trascinò per il colletto fino alla camera di tortura.

Giulio Cesare fu il primo ad essere sacrificato. Due energumeni in camice bianco lo bloccarono sopra un sedia da dentista, una signora che sembrava la Medusa, teneva in una mano un enorme bottiglia piena di un liquido giallo-verde, nell'altra un cucchiaio grande quanto il mestolo della polenta. Un bidello si avvicinò a Giulio Cesare, gli aprì la bocca e la tenne spalancata. Leandro chiuse gli occhi per non vedere l'orribile scena poi venne il suo turno.

Si ritrovò bloccato che non riusciva a muovere un dito, gli occhi spalancati verso il cucchiaio che si avvicinava alla sue labbra come un animale maligno. Strinse i denti e lottò con tutte le sue forze. Un liquido nauseante riempì la sua bocca, un odore rivoltante impregnò le narici e la nausea gli salì lungo la gola. Qualcuno gli chiuse la bocca e gliela tenne bloccata. Tutte le cellule del suo corpo cercarono di fuggire. Finalmente quella cosa scese giù e lui divenne una cosa unica con quella schifezza puzzolente. Per giorni e giorni gli rimase nella bocca e nella mente il sapore di quel liquido rancido e fetido e non c'era caramella o cioccolatino che riuscisse a cancellare il ricordo.

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