I ragazzi delle case INCIS cap 5°

 

Capitolo 5° Festa di compleanno

Quando Giacomo Lodicoallamamma compì dieci anni fu festa per tutti o quasi. In genere i compleanni dei bambini passavano distrattamente e senza grandi celebrazioni; due dolcetti e qualche caramella in casa propria. I più generosi(e ricchi) anche qualche mentina colorata da regalare agli amici. Ma la mamma di Giacomo organizzò un vero ricevimento. Gassosa, aranciata, chinotto e anche una bottiglia di spuma per i più grandi e poi caramelle, biscotti (savoiardi e wafer), paste e infine la torta: una zuppa inglese. Per giorni, i bambini fortunati (non tutti erano stati invitati) non parlarono d'altro. Quella festa era diventata così importante che finirono col dimenticare la paura che la mamma di Giacomo ispirava a tutti i bambini e non solo a loro.

Era, infatti, una donna alta e magra sempre vestita di nero come un eterno funerale; portava abiti lunghi e pretenziosi che la facevano sembrare una reliquia di altri tempi, una nobile decaduta. Il volto truccato con una colorazione bianca oltretomba, occhi enormi cerchiati di nero e i capelli nerissimi raccolti sulla nuca e tenuti da una spilla elaborata da cui partiva, spesso, una veletta nera. Nessuna mamma si vestiva e truccava come lei, neanche nei momenti importanti. Quella figura spettrale, con la sua sola presenza, uccideva l'allegria. Si diceva che da giovane era stata miss Venezia e che avesse partecipato a vari concorsi di bellezza. Ai bambini sembrava una strega, la sorella brutta della matrigna di Biancaneve. Viveva sola col suo unico figlio, viziato e coccolato oltre misura, non dava confidenza a nessuno e nessuno cercava la sua compagnia. Si diceva che, non solo potesse mandare maledizioni, ma fare fatture e sortilegi. La superstizione della gente aveva costruito intorno alla donna un muro di diffidenza che nessuno aveva voglia di abbattere. Nessuno dei bambini era mai entrato nella casa di Giacomo. Nessuno andava mai a chiamarlo, se veniva bene altrimenti peggio per lui. La donna, che si chiamava Carlotta, era vedova da molto tempo ma secondo le dicerie della gente il marito era scappato anni prima con un altra donna. Qualunque fosse la verità, tutti tenevano le dovute distanze dalla signora Carlotta.

La festa non si svolse in cucina come tutti si aspettavano ma nel salotto, una stanza enorme immersa nella penombra. Grandi tende bianche ricamate velavano le due finestre; ai lati, semipiegati, due tendoni di damasco, che facevano tanto palcoscenico, fermavano la luce del sole che cercava di entrare nella stanza con inquietanti giochi d'ombre. I mobili erano di legno scuro, una credenza ricca d'intagli nelle cornici e un cassettone di gusto barocco. Il divano era in velluto rosso come i tendoni, un grande macchia sanguigna appoggiata ad una parete. Non c'erano quadri e specchi alle pareti e la tappezzeria, eccessivamente ricca di decori, dava una nota gotica all'ambiente cupo. Sopra la credenza, una cornice d argento con la fotografia di un giovane uomo con enormi baffi a manubrio, il marito, e davanti due lumini accesi e una composizione di fiori finti. L'unica nota allegra, al centro della stanza, era un grande tavolo coperto da una tovaglia bianca, pieno di ogni ben di Dio e intorno sedie di varie forme e grandezza.

I bambini, passato il primo momento di timidezza e di timore, si buttarono sui dolci e le urla e le risate riscaldarono quella stanza troppo triste. Quando venne l'ora della torta Giacomo, emozionato ma orgoglioso, spense le dieci candeline con un soffio che sembrava una scoreggia mal riuscita (come disse Lucianino sottovoce) e tutti cantarono in coro:

- Tanti auguri a te e la torta a me.-

- E adesso una bella tazza di the.- Annunciò con voce tonante e con un raro sorriso la signora Carlotta. Apparvero dal nulla un enorme teiera fumante e sei tazzine bordate d'oro in porcellana di Bavaria per il festeggiato e i ragazzi più grandi. Gli altri si dovettero accontentare di volgari tazzoni (Ma perchè li fanno così grandi ?) da caffellatte. Erano le cinque a tutti gli orologi, erano le cinque in punto della sera e Leandro, che allora non conosceva Garcia Lorca, si sentì come il toro al centro dell'arena: pronto ad essere matato. Lui odiava il the.

Ci furono rumori e risucchi da far impallidire gli sciacquoni dei bagni delle navi della Tirrenia.

- E tu Leandro, non bevi il tuo the?- Più che una domanda sembrava un rimprovero.

- No grazie signora. A me non piace il the.-

- E  molto buono. Bevilo !- Quello non era un invito, era un ordine. E adesso?

- Bene bambini, se avete finito potete andare a giocare.- I ragazzi schizzarono dalle sedie.

- No, tu no. Prima finisci di bere il tuo the.- Leandro che era già sollevato a metà come uno sprinter sui blocchi, alla partenza dei centro metri, fu ributtato indietro più che dalle parole dal tono duro e cattivo della strega e di colpo si ritrovò solo, davanti ad un enorme tazza piena di un liquido fumante che sembrava piscio.

Coi bambini se n'erano andati l'allegria, la luce e i colori. La stanza era di nuovo un antro e la strega, in piedi davanti alla porta bloccava l'unica via d'uscita. Sembrava ancora più alta e nera e fissava Leandro con uno sguardo da cane da punta. Il bambino spostava continuamente lo sguardo dalla tazza alla donna senza capire cosa fosse peggio tra le due. Il tempo s'era fermato. Ogni tanto provava ad avvicinare il liquido alla bocca e subito la nausea lo prendeva alla gola.

- Lo devi bere tutto.- La donna continuava a fissarlo, il suo respiro sembrava venire da lontano come il sibilo di un animale in agguato. Ombre spaventose danzavano dietro le tende, mentre il sole, fuori, cominciava la sua discesa verso la notte. Leandro non osava più neanche di sollevare lo sguardo. Aveva paura. Sapeva che non c'era vita negli occhi della donna e neppure pietà. Alla fine si arrese, il the era completamente freddo ma lo ingoiò tutto di un sorso, fino all'ultima goccia.

- Adesso puoi andare.-

Leandro si precipitò fuori della porta, giù per le scale e appena fu all'aperto vomitò tutto. Ma non disse niente a nessuno.

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