I ragazzi delle case INCIS cap 4°

 

Capitolo 4° Venti di guerra

Il problema principale delle mamme delle case INCIS era come recuperare decentemente camicie, magliette e pantaloni regolarmente stracciati dalle battaglie quotidiane. Per le botte, i lividi, i graffi e le varie escoriazioni bastava una bella scorta di alcool denaturato, medicina universale da versare sopra le ferite sanguinanti. Nelle case risuonavano urla da commuovere un boia. Le mamme no, loro non si commuovono mai. Infatti i colpi che facevano più male erano quelli delle mamme.

Leandro poi, aveva un fatto personale con un battipanni di vimini intrecciato. Non si rompeva mai e si che aveva studiato ogni sistema possibile e immaginabile per mettere fuori uso quell'arma terribile. Nulla da fare. Solo il fuoco poteva distruggere quell'incubo. Aveva avuto spesso la tentazione di bruciare il battipanni ma sarebbe stato come accusarsi davanti al mondo e quel che è peggio, davanti alla mamma. Belli i tempi quando il manico della scopa era lo strumento che accarezzava schiena e fondo schiena ma dopo la terza rottura, la mamma, brontolando che non si facevano più le scope come una volta, disse che l'educazione dei figli costava troppo cara. Così il battipanni, che fino ad allora aveva svolto il suo onesto lavoro di scuotitore di materassi e tappeti, venne promosso al ruolo di castigabambini.

Purtroppo Leandro, con la scusa che era il maggiore, pagava oltre ai suoi anche i conti di Giuseppe. Solo una volta provò a contestare le decisioni materne, definendole un abuso di potere e una discriminazione sociale (Una frase che aveva trovato in un libro. Non aveva capito cosa significasse però suonava bene). La mamma non aveva apprezzato tanta abilità dialettica e aveva replicato nel suo modo tradizionale: a colpi sulla schiena.

I due fratelli si erano trovati soli in casa, fuori pioveva una pioggia sottile e continua che non permetteva di uscire. Giocare con Giuseppe non era per Leandro il massimo del divertimento ma non c'erano alternative alla noia, così D'Artagnan decise di sfidare a duello le guardie del Cardinale. La cucina divenne un campo di battaglia, la credenza il palazzo del re, le sedie un groviglio di strade e vicoli. Giuseppe si difendeva come poteva dalla maggior abilità dei quattro moschettieri (Leandro cambiava personaggio secondo l'avversario) ma quando il capitano delle guardie cercò rifugio sopra il tavolo, D'Artagnan in persona si incaricò dell'ultima stoccata. Finte e controfinte e come diceva Cirano de Bergerac:

- E giunto alla fin della licenza io tocco.- (Gli altri versi non li ricordava). Leandro, con un velocissimo affondo, colpì l'avversario. Giuseppe, nell'estremo tentativo di difesa, tirò giù il lampadario finto Murano. Farfalle gialle e azzurre si sparsero per tutta la cucina insieme a migliaia di pezzi di vetro. La mamma non volle sentire ragioni.

- Non sono stato io. E'stato Giuseppe. -

- La colpa è tua.-

- Ma perchè sempre io ?-

- La responsabilità è tua. Dovevi stare attento a tuo fratello.- Giuseppe nascosto dietro la porta della cucina, guardava curioso con un sorriso di scherno e di compiacimento. Roba da spaccargli la faccia, pensò Leandro ma solo per un momento poi fu troppo occupato a sfuggire i colpi della mamma che, di sicuro non aveva mai letto i tre moschettieri. Poi un colpo uscito male si schiantò sul volto di Leandro. La mamma si bloccò quasi paralizzata, divenne pallida e seria come una giornata di neve, gli controllò attentamente il viso, lo pulì con uno straccio umido, gli accarezzò i capelli. Leandro faceva sforzi sovrumani per non piangere. Il dolore era fortissimo. Il battipanni tornò alla sua antica e onesta professione.

La violenza, in tutte le sue forme, era una costante nella vita di Leandro e non solo nella sua. Non certo per scelta, probabilmente per necessità, di sicuro un modo di esprimersi in un età piena di problemi incompresi dal mondo degli adulti. L'espressione infanzia felice è una grande bugia, un comodo contenitore dove gettare, insieme all'egoismo e all'ipocrisia dei grandi, il futuro dei bambini. Un alibi per non assumersi responsabilità. Certi adulti sembrano nati vecchi, forse non sono mai stati bambini e se lo sono stati, hanno dimenticato in fretta. Ma i bambini non sono buoni e non sono felici. Devono affrontare un mondo troppo diverso da quello che gli viene raccontato ogni giorno in casa e a scuola. Un educazione schizofrenica insegna loro solo a nascondersi, a diventare delle copie conformi degli adulti. Tutto ciò che non entra in uno schema stabilito viene classificato con:

- Che bambino strano. Diverso.- 

- Crescerà anche lui e diventerà come gli altri.- Il vero problema è che nessuno sa come devono essere gli altri. Come Bove che si esprime a pugni e ci trova gusto. Come Lucianino, così amico di tutti, con le sue paurose crisi di follia. Come Leandro, così taciturno e sempre perduto chissà dietro quali sogni. Leandro che odia la violenza ma che, per difendersi, non conosce altro modo di esprimersi. Anche l'amicizia con Giulio Cesare era nata da una feroce litigata. La causa, come sempre inesistente o quasi, il copione monotonamente uguale.

Prima uno scambio di parolacce, una serie di reciproci spintoni, infine i due, abbracciati, finirono a terra dove rotolando tra schiaffi, pugni, graffi, sputi e qualche morso, continuarono fino al primo sangue. Quella volta ci fu una variante. Mentre Leandro, seduto comodamente sulla pancia di Giulio Cesare si esibiva in una notevole serie di ceffoni, Alessandro, il fratello minore di Giulio Cesare, arrivò di soppiatto e, raccolta una grossa pietra, cominciò a colpire metodicamente la schiena di Leandro.

- Così non vale. Due contro uno.- La battaglia terminò coi due duellanti che dichiararono una tregua.

- E'la prima volta che mio fratello serve a qualcosa.-

- Il mio invece è solo un peso morto.- Per una strana proprietà transitiva anche Giuseppe e Alessandro divennero amici inseparabili.

I bambini sono talvolta crudeli mai cattivi. Spesso è l'esuberanza che li porta ad essere eccessivi. La loro violenza è solo uno scoppio di petardo. Fa molto rumore e dura un attimo. Dalla violenza dei bambini, dai loro contrasti, nascono spesso rapporti che durano tutta la vita, quando non si mettono in mezzo gli adulti a trasformare un niente in una condanna senza appello.

Naturalmente ogni regola ha la sua eccezione: Bove. Il suo unico scopo di vita era provocare gli altri per picchiarli. Aiutato da un fisico massiccio (un vero ciccione ma guai a dirglielo) era il terrore di tutti i bambini. Nessuno osava mettersi contro quell'antipatico, che spesso era aiutato del suo compare, Danilo (chiamato di nascosto: la serpe).

Solo Lucianino osava tenergli testa. Ma lui era pazzo. Una volta, riuscì a fargli perdere la faccia e non solo. Un idea estemporanea, tipica del suo carattere. In realtà Lucianino era un ragazzo alto e magrissimo, eternamente divorato dalla fame. Ogni mezz'ora abbandonava gli amici per ritornare subito con un enorme panino pieno, qualche volta, di marmellata dura di cotogne, quella che vendevano a cubetti con un francobollo da collezione in omaggio. Più spesso pane, burro e zucchero. Quasi sempre pane e basta. Era un ragazzo tranquillo, non molto loquace, ma con delle improvvise uscite umoristiche che erano la delizia di tutti. Tutti gli volevano bene ma lo temevano per via di quelle di crisi isteriche che, come un temporale estivo, arrivano quando meno te l'aspettavi. Tutti fuggivano perchè gli veniva la bava alla bocca e gli occhi impazzivano dentro le orbite. Gli adulti dicevano che era malato. Forse ma era un grande amico.

Una scommessa abituale era quella di arrampicarsi sui terrazzini del primo piano. Leandro era molto agile ma gli altri non erano da meno, così le sfide erano continue, malgrado i panni stesi e le proteste delle mamme.

- Ma Bove non ci prova mai ?-  La domanda di Lucianino esplose come un tuono improvviso in una giornata di sole. Una dozzina di volti si girarono verso Bove con un espressione beata. Quella era più che una sfida, era una dichiarazione di guerra e il ciccione non poteva tirarsi indietro. Bove capì di essere in trappola, quei mocciosi che lo fissavano in silenzio con sguardi cattivi lo avevano colpito nel punto debole: l'orgoglio. Prese fiato a lungo, poi fece un balzo ma non arrivò al bordo di marmo del terrazzino. Si guardò intorno. Si sentì come i cristiani nel Colosseo, circondato da leoni affamati. Un altro balzo inutile, i chili si facevano sentire. Al quinto salto, Bove si ritrovò appeso per aria come un enorme sacco di patate. Aveva speso tutte le sue forze e si sentiva totalmente privo di energie.

- Aiutatemi a scendere.-

- Lo aiutiamo ?-

- Siii !- rispose un coro di bambini. Lucianino si avvicinò e con un solo colpo abbassò pantaloni e mutande dell'appeso. Apparve un sedere enorme, bianco e molliccio.

- Ragazzi, questo è molto più che un culo.-

- E' vero sembra una botte.-

- E'più grande di piazza dei Signori.-

- Più grande dell'aeroporto di San Giuseppe.-

- Vigliacchi. Tiratemi giù.-

- Guardate. In mezzo ci può passare il fiume Sile.-

- Si, infiliamoci una barca di carta.-

- Quando vi prendo, giuro che ve la faccio pagare.-

- Chiamiamo le ragazze ?-

- Si, andiamo a chiamarle. Anche loro devono vedere quest'enormità.-

- No! Le ragazze no!-

- Di sicuro non hanno mai visto un culo così grande.-

- Vale per due.-

- Quando scoreggia, la puzza arriva a Venezia.-

- Vi ammazzo tutti!- Bove urlava la sua rabbia. Per un tempo interminabile i ragazzi si divertirono a sfottere il povero Bove che era diventato paonazzo per l'ira e la fatica. Arrivarono anche altri ragazzi incuriositi da quel nuovo spettacolo.

- Beh ! Non possiamo stare tutta la sera qui a guardare questa cosa schifosa.-

- Allora andiamo ma lasciamo un segno del nostro passaggio.- Propose Lucianino. A turno tutti i bambini regalarono al malcapitato dei feroci pizzicotti. L'ultimo quasi non riusciva a trovare uno spazio bianco in quella lavagna rossa. Le urla di Bove erano strazianti ma, a quell'ora, le mamme erano fuori per la spesa e poi da lontano non si sentiva niente. La settimana successiva ci fu molta pace alle case INCIS. Le mamme non riuscivano a capire come mai, stranamente, i loro figli non avevano voglia di uscire. Bove si aggirava nei dintorni come una belva in cerca di preda.

Ma anche lui trovò il suo giorno. Leandro aveva appena compiuto dodici anni. Il bambino piccolo ed esile si stava trasformando in un ragazzo non alto ma ben piazzato. Sulle gambe i primi peli e un guizzare nervoso di muscoli. Anche Bove era cresciuto ma restava sempre un brutto ciccione. Non servirono provocazioni. Dopo sei anni, quella sfida, degna dell'O.K. Corral, era arrivata al suo naturale epilogo. I due si diedero appuntamento nello scantinato del palazzo di Bove. Nessun spettatore per quella resa dei conti.

Bove era più alto e decisamente più grosso ma poco agile e pesante nei movimenti. Leandro era molto più rapido e aveva alle spalle anni di attesa. Bove cercò di afferrare l'avversario per stritolarlo nella sua morsa, ma Leandro gli sfuggiva come un anguilla. Trascorsero vari minuti di mosse e contromosse. Bove cominciava ad essere stanco, quel maledetto gli ballava davanti come una mangusta. Per la prima volta, Bove sentì e capì la paura. Si distrasse un attimo e Leandro, con una mossa di lotta libera, lo sollevò sulle spalle e lo scagliò contro il muro. Bove cadde a terra pesantemente e mentre cercava di rialzarsi Leandro gli fu addosso. Cominciò a colpire e non smise fino a quando le braccia divennero così pesanti da non riuscire a sollevarle. La faccia di Bove era una maschera di sangue e lacrime.

- Basta. Per pietà.- Con un filo di voce, il ragazzo piangeva e pregava. Leandro si alzò e senza voltarsi raggiunse le scale e uscì all'aperto. Le nocche delle mani erano sbucciate e sanguinanti ma non sentiva dolore. Aveva vinto ma non sentiva gioia. Sentiva il solito vuoto alla bocca dello stomaco. Si guardò intorno, era il primo pomeriggio di un afoso giorno di luglio. Non c'era nessuno in giro. Respirò profondamente poi si avviò a casa, a testa bassa, come un soldato sconfitto.

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