I ragazzi delle case INCIS cap 3°


Capitolo 3° Mille automobili

I bambini hanno sempre avuto talento e fantasia  per il gioco. Tempo un pò meno. La scuola li impegnava solo la mattina ma nel pomeriggio, quando potevano dedicare tutte le energie alla creazione di storie incredibili e di mondi invisibili agli adulti, le mamme ti riportavano alla mediocrità quotidiana con ordini del tipo:

- Va a fare i compiti.-

- Controlla cosa sta facendo tuo fratello ( Ma chi se ne...)-

- Vai a comprare dieci lire di estratto di pomodoro.- E ti davano solo dieci lire.

- Non fare questo e non fare quello.- L'elenco delle cose che non si potevano fare era infinito. In pratica tutte cose divertenti e piacevoli. Oppure c'era la serie delle intimidazioni.

- Se ti sporchi...- e la minaccia restava sospesa nell'aria come un temporale in agguato dietro le nuvole. Comunque, mamme permettendo, il pomeriggio cominciava sempre con la fatidica domanda:

- Cosa facciamo ? - Seguiva un silenzio così intenso che pareva quasi di sentire il rumore di dieci, venti cervelli al lavoro. In realtà tanta intelligenza finiva sempre col produrre le stesse proposte. Rubare pannocchie di granturco o frutta varia a seconda la stagione; andare a sfottere i bambini che abitavano dietro la stazione e chiudere con la solita rissa oppure, oppure: - Boh ! - Una sera Matteo se ne uscì con un idea nuova.

- Registriamo le targhe delle macchine che passano.-

- Che stronzata ! -

- A cosa serve ?-

- Ho saputo che se si raccolgono mille targhe di automobile si vince una Fiat.- Matteo sa sempre tutto. Dice lui.

- E chi l'ha detto ?-

- Me l'ha detto il mio papà che legge molti giornali.- I bambini riflettevano perplessi. Non passavano molte macchine da quelle parti. Treviso era una piccola città di provincia ad economia perlopiù agricola. Del resto, nel 1954, poche persone potevano permettersi un'auto. La guerra era finita da pochi anni e la maggior parte era impegnata a costruirsi un futuro. Anche alle case INCIS, dove si trovava qualche funzionario benestante, l'automobile era un sogno ancora lontano. Infatti l'unica macchina era di pochi mesi prima. Apparteneva ad un signore del quarto palazzo, un funzionario in pensione, più largo che alto, noto tra i bambini come l'uomo dallo stronzo in bocca per via di un enorme sigaro sempre acceso e fumante. L'uomo aveva comprato una Topolino nera.

Leandro abitava nello stesso palazzo, stessa scala ma all'ultimo piano e una volta era stato invitato, insieme al fratello, dalla moglie del vecchio, una signora simpatica e suonata che adorava i bambini(la coppia non aveva avuto figli). Li aveva fatti accomodare in un salotto tutto mobili intarsiati, tovaglie di pizzo e merletti, e li aveva riempiti di biscotti. Infine, dopo una lunghissima ora di un chiacchiericcio fitto e sconclusionato (- Ma cosa stava dicendo ?- chiese dopo Giuseppe) la vecchietta aveva mostrato ai bambini il tesoro di famiglia: due sacchi da carbone pieni zeppi di monetine da una, due, cinque e dieci lire.

- Che meraviglia !- esclamò Giuseppe, Leandro pensò invece che quell'enorme ricchezza era sprecata. La donna regalò a ciascuno dei bambini una moneta da cinque lire. Che spilorci, bastava a malapena per comprarsi una bustina di farina di castagna. Quando il vecchio comprò la Topolino, Leandro spiegò agli amici che costava due sacchi di monete. Lui lo sapeva.

Il giorno dell'arrivo della macchina, tutti i ragazzi delle case INCIS e dintorni, erano in trepidante attesa come se fosse un patrimonio comune. Ma il pensionato fece capire subito che non gradiva tanta attenzione. Il primo giorno, cacciò via a male parole tutti i bambini che cercavano di avvicinarsi, in seguito si mise fisso di guardia dietro la finestra di casa, pronto a scagliarsi contro il primo ragazzo che, magari passando per caso, si trovasse a tre metri dalla macchina. Ogni giorno la puliva e lucidava per ore intere (l'uomo usciva raramente). Lucianino giurava che riusciva a vedere anche i granelli invisibili di polvere.

Una macchina che non si poteva toccare, un ometto piccolo e grasso che non poteva vedere i bambini e un enorme stronzo sempre fumante, non potevano non invitare i bambini ad una naturale reazione. In gergo militare, quella era una vera e propria dichiarazione di guerra. Naturalmente fu subito accolta. Da dietro l'angolo del palazzo di fronte, un bel gruppo di bambini (solo maschi), almeno trenta, aspettava il momento giusto. A turno spiavano la finestra della cucina dove l'uomo stava di guardia. Forse sospettava qualcosa perchè sembrava inchiodato al suo posto. Ogni tanto spostava la tendina e scrutava fuori. Dopo due ore di attesa, di vi vedo e vi controllo l'uomo abbandonò la sua postazione. Pochissimi minuti ma furono sufficienti: la Topolino, lucida da abbagliare un cieco, fu completamente pisciata da trenta bambini dalla vescica bella piena. 

Sul ciglio della strada, scaldati da un felice sole d'autunno, un gruppo di ragazzini si annoiava allegramente nell'attesa del passaggio di qualche automobile.

- Un mio compagno di classe ne ha contato già cinquanta.-

- E noi, in due giorni, solo dodici.-

- Bisognerebbe andare in centro e qui siamo in campagna.-

- Eccone un altra. Segnala.-

- Quella non vale, l'abbiamo già contata ieri.-

- Perchè le doppie non valgono?-

- Guarda che non stiamo raccogliendo figurine o francobolli.-

- Certo che mille automobili sono tante.-

- Davvero! -

- E non bastano. Dobbiamo raccoglierne di più, quasi mille.-

- Davvero ?-

- E quante sono quasi mille ?-

- Tante.-

- Troppe.-

- Allora non ce la faremo mai.- La storia delle targhe aveva fatto il giro della città. La classica leggenda metropolitana che non si sa mai dove e perchè nasce ma finisce col diventare vera. Centinaia di ragazzini, con il loro bravo quaderno dalla copertina nera e matita, battevano le strade della città registrando targhe. Si videro anche degli adulti, che con fare furtivo, prendevano appunti. Interpellati, rispondevano spudoratamente: - Sto aiutando mio figlio. E un gioco di bambini.-

L'idea di poter avere un automobile gratis, aveva conquistato piccoli e grandi. Qualche scettico aveva suggerito che quella era una grossa bufala. Ma si sa, le balle più sono grandi e più sono credibili. Quella era un operazione pubblicitaria della Fiat e la Fiat era come la Madonna. Non si discute.

- Se vinciamo noi, cosa faremo della macchina ?-

- Già, noi non possiamo guidare.-

- La vendiamo e mangiamo caramelle per tutta la vita.- Per un paio di settimane i sogni notturni e diurni dei bambini si riempirono di caramelle e altri dolciumi, poi, ci fu qualche distrazione, nacquero altri interessi e quella storia, così com'era nata, svanì nel nulla. Non si seppe mai chi vinse il concorso delle targhe. I bambini ritornarono ai soliti giochi e all'eterno interrogativo:

- Che noia! Cosa facciamo?

Il gioco più importante in assoluto nell'anno 1955, fu il Giro d'Italia che per un paio di settimane divenne famoso in tutto il vicinato. La popolarità di Bartali e Coppi, le loro imprese, furono un forte stimolo per una replica della gara ciclistica più nota: il Giro. Naturalmente reinventato ad uso di bambini  senza bicicletta. Infatti gli strumenti di gara erano semplici tappi di bottiglia rielaborati e lavorati secondo il gusto personale dei concorrenti. Non era un lavoro facile preparare la bicicletta . Il tappo doveva essere abbastanza pesante per percorrere lunghi rettilinei con un solo tiro ma abbastanza leggero ed equilibrato per non sbandare in curva e uscire di pista. La spinta propulsiva veniva dal dito indice che, piegato a curva dietro il pollice, scattava all'improvviso come una molla imprimendo al tappo la velocità necessaria. L'abilità degli atleti consisteva nello scegliere la giusta velocità a seconda del tiro e del terreno di gara.

Ogni concorrente, inoltre, doveva avere il nome di un ciclista. Leandro si iscrisse come Ercole Baldini, il fratello Giuseppe come Charlie Gaul. La tassa d'iscrizione era di cento lire, il premio finale previsto non meno di duemilacinquecento lire divise tra i primi due classificati. C'erano anche i premi di tappa: centocinquanta lire ma solo al primo arrivato. Si iscrissero una cinquantina di ragazzi, anche dei dintorni. Le ragazze furono scartate perchè giudicate inadeguate allo spirito del gioco. Per protesta si rifiutarono di fare da spettatrici. Si stabilì un giro formato da diciotto tappe (una al giorno, escluse le domeniche). Il percorso venne costruito su un tracciato che girava intorno ai quattro palazzi, con partenza e arrivo finale al primo. Ogni giorno si cominciava dall'arrivo del giorno precedente, si liberava il terreno dalla ghiaia, si tracciava un circuito che prevedeva rettilinei, curve rialzate, salite e discese secondo le asperità.

Furono previste tappe a cronometro (ogni concorrente cominciava e finiva da solo il percorso) e tappe di montagna. Il regolamento era molto semplice: vinceva chi arrivava al traguardo col minor numero di tiri. La prima tappa fu vinta da un ragazzino che abitava dietro la stazione. Il pubblico era numeroso e competente e seguiva, con entusiasmo e con continui commenti (anche sboccati) le esibizioni dei concorrenti. Anche qualche adulto, con la scusa di controllare quell'assembramento di ragazzi, seguiva con attenzione gli sviluppi della gara. Dopo le prime tappe fu chiaro a tutti che la vittoria finale sarebbe stata appannaggio di tre persone: l'antipatico Bove, l'amico Danilo e, con grande sorpresa di tutti, il più piccolo dei concorrenti: Giuseppe.

Erano indubbiamente i più bravi, gli altri potevano aspirare solo a qualche vittoria di tappa. Anche Leandro ebbe il suo momento di gloria. Nella sesta tappa si ritrovò in testa ad un solo tiro dal traguardo con un vantaggio di tre tiri sul secondo. Il tifo era infernale, Giulio Cesare e Giuseppe lo incoraggiavano in ogni modo. Bove e Danilo cercavano di confonderlo sfottendolo e ingiuriandolo senza tregua. In quella bolgia infernale, Leandro sbagliò il primo tiro. Il tappo toccò una pietruzza invisibile e volò fuori pista. Calma e sangue freddo, ci sono ancora due tiri. Facile a dirsi. L'emozione di vincere, la tensione nervosa, il caos intorno a lui, il cuore che gli ticchettava nelle orecchie. Leandro sbagliò il secondo tiro ed anche il terzo. Perse la tappa, la faccia e il rispetto degli amici e si ritirò dalla gara inseguito da sberleffi e pernacchie.

Per diversi giorni la ferita sanguinò come una fontana. Chiuso in casa, meditava sulla sfortuna e sui casi della vita, ma essendo troppo giovane per elaborare pensieri profondi diede la colpa ad Ercole Baldini. Negli anni successivi, ripensando con fastidio a quel triste episodio, si convinse dell'accuratezza della sua diagnosi. Ercole Baldini si dimostrò un vero concentrato di iella. Infatti era un campione che non vinceva mai.

Tornando al Giro, bisogna dire che alla decima tappa, l'interesse era scemato. Metà dei concorrenti si era ritirato e gli altri continuavano senza convinzione. Quei tre erano troppo forti, anche le vittorie di tappa finivano sempre a Giuseppe (primo in classifica), Bove e Danilo. Alla diciottesima e ultima tappa, la più importante, detta del Bondone, erano rimasti solo sei concorrenti. Anche il pubblico era scomparso, altri giochi si erano portati via gli sconfitti. Bove e Danilo si comportarono col piccolo Giuseppe come il Gatto e la Volpe con Pinocchio. Lo misero in mezzo, bararono spudoratamente e gli rubarono la vittoria di tappa e del Giro.

Leandro si ritrovò davanti il fratellino disperato e piangente. Andò a chiedere spiegazioni ai due lestofanti e la discussione degenerò. Bisognava essere dei vigliacchi per imbrogliare un bambino tre anni più piccolo di loro. Essere chiamati vigliacchi era l'offesa peggiore per un ragazzo delle case INCIS. Solo il sangue poteva lavare quel terribile insultò. Leandro capì l'antifona e pensò che non solo erano due contro uno ma che erano anche particolarmente inferociti. All'epoca abitavano nel primo palazzo in un appartamento al piano terra (rialzato). La cucina si apriva su un terrazzino a poco più di due metri dal piano stradale. Era una specie di entrata di sicurezza, un balzo verso l'alto, una tirata di braccia e in un attimo ci si trovava in casa. Serviva per le emergenze, quando non c'era tempo di entrare nel portone, salire una rampa di scale, suonare il campanello e aspettare che qualcuno aprisse.

Il nemico era alle spalle. Leandro era agilissimo e l'acrobazia gli era sempre riuscita bene. Quel giorno qualcosa andò storto, inseguito dai due compari, Leandro aveva solo pochi metri di vantaggio e calcolò male i tempi. Agganciò il bordo del terrazzo solo con una mano e piombò a terra. I due gli furono addosso. Fu l'unica volta che la madre non lo punì. Per tre notti dovette dormire a pancia in giù, la schiena era una piaga dolorante. La nonna ogni sera gli metteva delle fette di patate crude sulle ferite.

- Calma il dolore e guarisce la pelle- diceva. Leandro sognava sempre il giorno della rivincita.

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