I ragazzi delle Case INCIS cap. 2°


Cap. 2°     I tigrotti della Malesia

Le case INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali) erano solitamente dei grossi caseggiati anonimi che lo Stato affittava a prezzi modesti ai suoi dipendenti. Maggiori erano le dimensioni e il lusso degli appartamenti e maggiori erano il prezzo e il grado del funzionario. Il padre di Leandro e Giuseppe era un modesto usciere che, dopo la carriera militare come sottufficiale dell'aeronautica, finita la guerra aveva preferito tornare alla vita civile e messa su famiglia, aveva lasciato la natia Sardegna per ritrovarsi tra le nebbie e il freddo del profondo nord.

A Treviso, le case INCIS erano composte da quattro palazzoni a quattro piani con due ingressi separati e tre appartamenti per piano. Erano delle brutte scatole, perfettamente incolonnate e allineate come soldati, situate alla fine di via Monte Grappa, la periferia oltre la porta dei Santissimi Quaranta Martiri (che tutti chiamavano più brevemente porta Santi Quaranta) al confine con la campagna. I fabbricati erano sorti all'interno di un area enorme, recintata da una siepe che non aveva mai conosciuto un giardiniere ed era la dimora preferita di tante e varie specie di insetti da mettere in crisi anche un entomologo provetto. Gli spazi comuni erano adorni di aiuole con, al centro, alberi di magnolie eternamente spogliati dei loro fiori. Il terreno era ricoperto da un fitto strato di ghiaia, causa quotidiana di ginocchia sbucciate e pantaloni da rattoppare. Dietro il quarto palazzo cominciava il paradiso dei bambini.

Da un lato un pezzo di terreno era stato spianato e trasformato in un campo di calcio quasi regolamentare che confinava sul lato lungo esterno con un area ricca di orti e di frutteti. Una rete metallica come sola protezione non era sufficiente a salvare i poveri contadini dalle incursioni di una spaventosa banda di feroci e affamati bambini dai sei ai dodici anni. L'altro spazio a disposizione era un rettangolo irregolare di quasi due ettari; il terreno era sconnesso con avvallamenti e piccole montagnole con pochi e isolati alberi di gelso. Erbacce e arbusti di vario tipo, a seconda la stagione, costruivano la scenografia ideale per i giochi dei bambini. A scelta, l'area diventava la terribile foresta del Borneo dove Sandokan coi suoi tigrotti della Magnesia (- la Malesia, ostia !-) combatteva i crudeli Tughs (- E chi sarebbero? - Gli abitanti dei Tuguri, scemo.- Ah!). Oppure poteva diventare il selvaggio Uest, dove spaventosi pellirosse venivano regolarmente sconfitti dalle valorose Giubbe Rosse del generale Caster e da Buffalo Bill (- e  anche suo fratello.- Chi?- Pecos Bill-). A volte si trasformava nel mare dei Sargassi dove il Corsaro Nero combatteva contro il viscido pirata Barbanera; allora i poveri gelsi diventavano alberi di vascelli e galeoni dove acrobatici marinai alzavano e abbassavano le vele (di fatto venivano strappate le foglie) e qualche volta precipitavano tra le acque dure e polverose dell'oceano.

Cento storie e cento guerre sono state vissute in quel set quasi cinematografico ma le lotte più accanite si svolgevano per la scelta dei ruoli da interpretare. Col tempo si stabilirono alcune gerarchie; i più grandi erano i protagonisti principali mentre ai più piccoli toccavano sempre ruoli da comprimari e da comparse col risultato che molti abbandonavano la scena a metà rappresentazione. Qualche volta, ad integrazione della scenografia e secondo il gioco da raccontare, veniva utilizzata la vicina stazione ferroviaria. In realtà era solo un deposito secondario con un traffico inesistente ma quei pochi vagoni abbandonati e pieni di ruggine e sporcizia hanno visto assalti al treno meritevoli della regia di John Ford.

La riunione preparatoria era sempre affollata, almeno una cinquantina tra bambini e bambine.

- Giochiamo alla guerra.- Era sempre la prima proposta regolarmente bocciata dalle bambine che contestavano la povertà dei loro ruoli: solo infermiere e crocerossine. Le poche volte che la proposta fu approvata, le bambine rimanevano per tutto il tempo rannicchiate nella trincea (il fosso che confinava con gli orti) e aspettavano l'arrivo dei feriti. Domenica, una ragazzina svelta di lingua e di mano, perdeva regolarmente la pazienza dopo cinque minuti e invece di fare delle finte medicazioni e delle finte iniezioni, dava dei pizzicotti tali che i soldati preferivano tornare al fronte.

- Facciamo Robinud e i quaranta ladroni della foresta.-

- E Alì Babà se ne va a rubare col Gatto e la Volpe.-

- Zitto tu, sardegnolo.- Era il solito Bove, l'unico bambino che veniva chiamato col cognome e, in realtà, era grande e grosso come un bue. Ma per niente mansueto, anzi un prepotente che amava provocare gli altri per poi picchiarli. Tutti, a turno, avevano assaggiato i suoi pugni, per cui cercavano il più possibile di non ripetere l'esperienza.

- Veramente sardegnoli si chiamano gli asini. Io sono sardo.- replicava calmo Leandro, poi sottovoce aggiungeva:

- Un giorno faremo i conti.-

- Calma ragazzi, non litighiamo.- L'intervento di Renato metteva sempre pace tra i belligeranti. Lui era il leader indiscusso, il maggiore d'età, biondo e bello come un angelo. Le bambine lo adoravano ma anche i maschi lo rispettavano perchè non abusava della sua maggior forza e non picchiava regolarmente i più piccoli come faceva Bove col suo amico Danilo, un tipo segaligno dal volto giallastro e con uno sguardo cattivo che dava i brividi.

- Io sarò Robin Hood e Nuccia sarà Marianna, siamo tutti d accordo?- E chi poteva replicare.

- Ed io chi sarei ?- Il viso di Domenica era un temporale represso. Domenica era una bambina napoletana scura di pelle e di cappelli, scoppiettante come i fuochi d'artificio, sempre pronta alla lite con i ragazzi sia con la lingua che con le mani. Anche Leandro aveva assaggiato una volta le sue unghie affilate come coltelli e da allora aveva preferito evitare discussioni con l'arpia.

- Tu con Veronica farete le ancelle.-

- Bove farà lo sceriffo. -

- Ed io sarò il vice sceriffo.- Subito si auto candidava Danilo - Ho pure le pistole col cinturone.-

- Scemo! Le pistole non esistevano al tempo di Robin Hood.- La voce uscì anonima dal gruppo e fu subito seguita da sghignazzi e rumori vari.

- Chi è stato? Si faccia avanti che gli spacco la faccia.- Nessuno accettò l'invito.

- Ed io le pistole le porto lo stesso.-

- No, solo spade, lance, archi e frecce.- Renato cercava di mettere ordine nella discussione- perciò diamoci da fare.-

Lungo le rive del Sile c'erano molti canneti. Le canne, verdi e altissime si specchiavano nelle acque tranquille del fiume come donne brutte e vanitose, eternamente agitate dall'invidia della tranquilla bellezza dei salici piangenti e della forza dei platani, vicini di sponda. Questo in tempi normali. Ma quando orde di bambini armati di temperini i più ricchi, di coltelli da cucina gli altri, scendevano sulle rive, allora per tutti era tempo di dolore. Venivano saccheggiate anche case, cantine, cortili. Tutto poteva essere utilizzato: dal filo per cucire agli stracci per spolverare, penne di gallina per le frecce, inchiostro (il meno amato dalle mamme) come arma da lanciare contro i nemico, tappi di bottiglia, elastici, manici di scopa, cassette di legno e quant'altro poteva servire per spade, pugnali e altre armi da inventare al momento e di difficile classificazione.(- Le fionde no, porco can. -) Nel frattempo si continuava a definire i ruoli.

- Giulio Cesare fa la parte del frate.-

- Perchè proprio io?-

- Perchè hai la faccia giusta e sei il più bravo a fare il chierichetto.-

- Ma il frate è un ciccione.-

- E tu metti un cuscino sotto la maglietta.-

- E se mi scopre la mamma?-

- E la vuoi piantare di rompere!-

- Leandro farà Little John.-

- Ma quello è un colosso, Leandro invece...-

- Ma è piccolo nel nome e poi si fa come dico io.-

Renato finiva sempre con l'imporre la sua autorità.

- Matteo sarà il capitano delle guardie.-

- No. Io sarò re Giovanni.- Matteo era l'unico che non accettava mai le indicazioni di Renato. - Perchè? -

- Perchè io sono ricco ed ho un sacco di giornalini e se volete leggerli dovete fare come dico io.-

- Sei sempre il solito stronzo.- Con questa constatazione corale si chiudeva la discussione. La preparazione non era molto scientifica ed anche il rispetto della storia lasciava a desiderare. Tra digressioni, variazioni e improvvisazioni non si sapeva mai come sarebbe andata a finire. Tutti finivano col recitare a soggetto secondo la loro conoscenza personale (poca) del tema e la confusione mentale (tanta). A raccontare le imprese e le avventure dei ragazzi delle case INCIS c'è da perdere la ragione. Comunque questa è la cronaca di una storia qualunque.

- A monte del Little Bigiorn (- Si, buongiorno! -) si era schierato il 7°Cavalleggeri comandato dal generale Caster ( Renato), più arretrato il reparto mobile della Legione Straniera con i cammelli(- Ma quante gobbe hanno i cammelli ?- Due, ignorante, come le emme e le palle.-). Delle lunghe canne, con dei pezzi di spago come redini, erano a scelta cammelli, cavalli o altri animali a piacere.

Dietro i monti Appalacchiacani (- Ma sei sicuro che si chiamano così? - Certo, l'ho letto nell'Intrepido -) i lancieri del Bengala capitanati da Gari-Cuper (Lucianino, lo spilungone del gruppo) erano di riserva pronti ad intervenire.

Sul fronte avversario Toro Seduto (e chi se non Bove), Cavallo Pazzo(Matteo)con gli indiani Seminoles e Apaches, l'ultimo dei Mohicani(Danilo con cinturone e pistole), Sandokan coi pirati della Malesia e della Giamaica (tre ragazzini del palazzo dall'altra parte della strada perchè:- O ci fate partecipare come vogliamo noi o vi rompiamo le palle) e infine due bambini molto piccoli(Giuseppe ed Alessandro) che non si sapeva mai dove mettere. Comunque loro si portavano sempre il pallone appresso perchè tifavano per la Juventus e dovevano allenarsi.

Appena le ragazze della Croce Rossa suonarono il gong (in realtà un segnale che era una via di mezzo tra il guaito di un cane a cui avevano pestato la coda e il fischio di un treno merci, uno strano rumore  che solo Domenica riusciva a fare) gli indiani cominciarono a scaricare sul 7° Cavalleggeri frecce, lance, sassi, grida, sputi e scoregge poi, con un rapido dietro front, fuggirono tutti dietro la piramide di Cheope(l'ultimo palazzo). Il generale Caster fece suonare i tre regolamentari squilli di tromba:

 -PEREPE'-PEREPE'-PEREPE'.- Era sempre Domenica, la rumorista del gruppo. Troppo tardi si accorsero di essere finiti in un agguato. Una tribù di Piedi Neri (Matteo aveva arruolato di nascosto alcuni ragazzini di un altra zona con la promessa di alcuni giornalini: due capitan Miki e un grande Blek) armata di canne e stecche di cassette di legno, uscì dalle rovine di Costantinopoli (la cantina del terzo palazzo) e randellò senza pietà i soldati nordisti. Vi furono atti d'incredibile eroismo.

Enrico Toti (Giulio Cesare, l'amico inseparabile di Leandro), finite le frecce, tirò il suo arco, costruito con pazienza e amore, contro Bove ma sbagliò mira e colpì in fronte Veronica che, con una retina mezzo sfondata, cercava di catturare una farfalla gialla, finita distrattamente sul campo di battaglia. La bambina pianse molto ma fu prontamente vendicata da Domenica che infilò un dito nell'occhio di Giulio Cesare che dovette abbandonare il fronte.

Orazio Coclite (Lucianino. Ma non eri Gari-Cuper? Si, ma non mi piaceva più.-)si fermò da solo sopra il ponte di Brooklin (un asse di legno marcito gettato sopra un fosso) e al grido di :- GERONIMO !- affrontò le orde di Vandali guidate da Attila (Giacomo, il figlio di miss Venezia, chiamato da tutti Lodicoallamamma). Quel gesto gli procurò l'ammirazione di tutti e una settimana di punizione. La mamma la prese molto male per quegli stracci che poche ore prima erano state una camicia e un pantalone freschi di bucato. 

I fratelli Bandiera(Claudio e Carlo, due gemelli che non si rassomigliavano per niente), in coerenza col loro nome, facevano la staffetta per tenere alto il vessillo della patria, il trofeo più ambito dal nemico. Invano la loro mamma cercò la tovaglia che ricordava benissimo di aver steso ad asciugare insieme agli altri panni. Finalmente intervenne la Legione Straniera (c'erano due ragazzi che venivano dalla zona di Santi Quaranta) ma sbagliarono strada e finirono col picchiare le Giubbe Rosse di Alan Ladd (sempre Lucianino). Renato s'incazzò moltissimo.

- Così non si può andare avanti. Non si capisce un ostia.- Leandro sosteneva di aver ammazzato centinaia di esquimesi con la sua mitragliatrice ma quelli si rifiutavano di morire.

- Per forza, è un ora che spara e non ricarica mai l'arma.- In effetti Leandro si sentiva la bocca completamente secca per il lunghissimo taratatatà. Giacomo si lamentava che qualcuno gli aveva tirato addosso una cacca di cane.

- E adesso cosa dirò alla mamma? -

- Prova ad abbaiare. - Rispose Lucianino. Bove stava strapazzando Matteo.

- A me solo un Tex Willer e mancano anche le ultime due pagine.-

Un ciccione che abitava a Paese (una cittadina a pochi chilometri da Treviso) e che si era trovato lì perchè era in visita ad un parente, tentò di abbracciare Nuccia che si era dimessa da infermiera e vagava senza meta, forse alla ricerca di un ruolo che fosse alla sua altezza. Il temerario si guadagnò una ginocchiata al basso ventre e il suo grido di dolore fu considerato all'unanimità l'urlo più terrificante della serata. Lucianino si controllava un ginocchio sanguinante.

- Qui non va bene un ostia. Ho appena ucciso un pirata in regolare combattimento e quello risorge e mi aggredisce alle spalle sostenendo di essere un indiano Cheyenne.-

Poi una mamma, dieci mamme, trenta mamme gridarono dalle finestre. Lentamente e di malavoglia i ragazzi cominciarono a rientrare. E proprio in quel momento, Renato fu colpito alle spalle da Danilo e cadde trafitto da un raggio di sole, un riverbero su un pugnale di latta ricavato da un barattolo di conserva di pomodoro. Era solo un graffio ma la maglietta fu aperta da cima a fondo. Danilo fu sepolto da una gragnola di pugni e calci e per lui fu subito sera.

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