I ragazzi delle case INCIS cap 14°. Epilogo


Capitolo 14° Viaggio in Sardegna

 

All'inizio dell'estate la domanda fatidica di tutti i ragazzi delle case INCIS era:

- Dove andiamo quest'anno in vacanza?-

La risposta era quasi sempre uguale. Tutti al proprio paese d'origine, emigranti di ritorno ma con le valige nuove in cartone pressato o in finta pelle. Il nord restituiva al sud, almeno per un mese, quel carico di varia umanità utile ma non sempre gradita.

Anche la famiglia Sanna si preparava al rientro in Sardegna carica di paccottiglie e souvenirs per parenti e amici a dimostrare un benessere nuovo e una condizione sociale superiore che loro, poveretti, non potevano permettersi. Il treno da Treviso a Mestre era solo una prova di viaggio poi si prendeva il direttissimo per Milano. I ragazzi correvano veloci alla ricerca di uno scompartimento vuoto per sistemarsi vicino al finestrino, come davanti ad uno schermo dove il mondo passava in fretta.

- Troppo in fretta - pensava Leandro- non ti da tempo di sognare. - A Peschiera, Giuseppe saltò dal sedile.

- Il mare! Il mare! -

- E il lago di Garda, scemo.- replicò Leandro.

- Il lago è un mare senza sale.- rispose Giuseppe che, avendo cominciato la prima elementare non accettava più passivamente la presunta superiorità intellettuale del fratello. - Hai ragione solo a metà.- Che presuntuoso quel ragazzino, rifletteva Leandro, tanto lui aveva sempre due anni di vantaggio.

Alla stazione di Milano bisognava cambiare treno. C'era sempre una confusione enorme: gente che correva da un binario all'altro con codazzi di bambini che inciampavano regolarmente sui bagagli sparsi e treni che arrivavano e partivano in continuazione. Sembrava che mezza Italia si fosse messa in viaggio. Nel 1958 non avevano ancora scoperto le vacanze di massa ma si cominciava bene. Identificato il convoglio per Genova si cercava disperatamente un posto libero.

- Almeno per la mamma e la bambina.- diceva ogni anno il padre. Gli uomini viaggiavano in piedi, anzi Giuseppe si sedeva a cavalcioni su una valigia.

- No, quella no, che c'è roba che si rompe.- Il viaggio era abbastanza breve, solo due ore. Leandro si divertiva un mondo. Incollato ad un finestrino del corridoio dava uno sguardo fuori ed uno alle persone che in continuazione andavano su e giù.

- Permesso. Devo andare in bagno.- Ed erano pestate di piedi, gomitate nella pancia e altre piacevolezze simile. Più spesso Leandro e Giuseppe venivano spiaccicati e incollati al finestrino come francobolli.

- E stai attento!(i più) Scusa!(gli educati)  Pardon !(c'è sempre qualche raffinato) Nel corso degli anni, i tanti viaggi convinsero Leandro che la gente, in treno non fa altro che mangiare, maledire il governo per le scomodità e i ritardi e andare continuamente a pisciare. Lungo i binari scorreva un fiume di desideri, sogni, rifiuti e residui alimentari di ogni genere.

Dalla stazione di Genova al porto era un gioco delle parti. Tassisti dalla dialettica incantatrice elogiavano le bellezze incredibili della Sardegna e per fare un chilometro di strada ti facevano vedere mezza città. Poi presentavano un conto bastevole per un discreto giro intorno al mondo. La trattativa tra un tassista furbo e un padre navigato durava più del viaggio ma finiva sempre con un accordo soddisfacente per le due parti. Leandro non riusciva a capire la funzione del tassametro che pure continuava a ticchettare e a segnare cifre che nessuno controllava mai.

Finalmente la nave, talmente piccola che ballava anche nell'acqua ferma del porto. Davanti il mare e in fondo all'orizzonte, dietro la notte, la Sardegna. Leandro non amava i viaggi in Sardegna. Li considerava una condanna. Ricordava la prima volta. Il padre era stato comandato ad un altra sede di lavoro ma il trasferimento da Pesaro a Treviso aveva avuto qualche contrattempo. Allora la famiglia aveva deciso di trasferirsi qualche settimana in Sardegna in casa della nonna.

Poi, da lì sarebbero partiti per il nord. Leandro aveva iniziato a frequentare la prima elementare nella città marchigiana. Gli piaceva quella scuola con grandi aule illuminate da enormi finestroni che si affacciavano sulla piazza. Era un palazzo relativamente recente, costruito con lo stile monumentale dell'epoca fascista. Sulla facciata una scritta di quel periodo “CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE”  ricordava anche alle nuove leve di scolari che l'istruzione non era uno strumento di formazione e crescita culturale ma di controllo e inquadramento dei futuri cittadini.  

Naturalmente Leandro aveva altri pensieri. Alla stazione di Olbia aspettava assonnato e annoiato la partenza del treno. Il viaggio era stato scomodo. La nave della Tirrenia, una motonave del tipo regione, pur essendo di nuova costruzione, era insufficiente a soddisfare il crescente aumento di traffico e viaggiava spesso sovraccarica. Il signor Sanna era un uomo previdente e prenotava con molto anticipo i posti in cabina. In genere prendeva una cabina a quattro letti della classe turistica perchè la prima e la seconda classe erano care e la terza classe era da terzo mondo. Le cabine in realtà erano quasi uguali, l'unica differenza consisteva nel fatto che la classe turistica non aveva il bagno interno. Negli anni successivi Leandro avrebbe visitato con attenzione quei microcosmi e avrebbe scoperto che la terza classe, per esempio, era composta da cameroni con puzza di piedi incorporata, letti a castello a tre piani che per raggiungere l'ultimo bisognava avere una buona disposizione all'arrampicata e non soffrire di vertigini per cui molti preferivano dormire per terra. I servizi igienici erano talmente sporchi e privi d'intimità per cui tutti facevano la fila nei bagni di altre classi. Anche i bar avevano arredamenti e servizi secondo la categoria. I viaggiatori della terza classe andavano tutti nel bar di prima classe e occupavano tutti gli spazi comuni, i viaggiatori di prima classe rimanevano chiusi in cabina.

Questo in condizioni normali. Quando il mare era mosso o agitato la nave si trasformava in un girone infernale. Si vomitava a destra e a manca, i marinai spargevano sui pavimenti quintali di segatura ma si scivolava lo stesso come su una pista ghiacciata. La puzza ammorbava l'aria a tal punto che neanche sul ponte si riusciva a respirare aria pulita. Quando, dopo una notte di passione, la nave arrivava in porto, dalla scaletta si precipitavano fuori prima quelli che non soffrivano il mal di mare (Leandro era tra questi fortunati) poi, lentamente, sbarcava una lenta processione di sopravvissuti talmente pallidi da sembrare fantasmi. Una volta a terra, i passeggeri rivolgevano una preghiera di ringraziamento al Padre Eterno e un pensiero non proprio gentile nei confronti della compagnia di navigazione.

- Ma questo treno non parte più ?- Dopo nove ore di navigazione ce ne voleva anche un altra d'attesa, chiusi in vagoni che cominciavano a scaldarsi troppo sotto il sole estivo. L'imprevista pausa provocò proteste vigorose da parte di molti viaggiatori.

- Ancora qualche minuto di pazienza. Stiamo aspettando un carico speciale.- Il capotreno cercava di calmare le persone. Finalmente il carico speciale sbarcò dalla nave. Vestiti in borghese, con abiti vecchi e consumati, i ferri di campagna ai polsi, e una lunga catena che li legava uno all'altro, una lunga fila di galeotti scortati da carabinieri armati, si avviarono verso l'ultimo vagone del convoglio, una specie di carro merci, con piccole aperture per l'aria, chiuse da sbarre. Tutti i passeggeri si affacciarono ai finestrini quando quegli uomini dall'espressione cattiva passarono davanti al treno. Qualcuno fece dei commenti e delle considerazioni non proprio benevoli. Tutti si sentirono giudici e li condannarono senza appello. Leandro guardava quei volti duri, di giovani e meno giovani. Guardava quelle manette enormi che sembravano ferri di tortura del Medioevo. Guardava quella catena che non finiva mai. Non sembrava così pesante ma quegli uomini camminavano lentamente come se un peso invisibile piegasse le loro gambe.

- Cosa hanno fatto ?- Domandò Leandro al padre.

- Sono delinquenti che vanno a scontare la loro condanna in prigione.- La risposta non chiarì i dubbi del bambino. Aveva visto film e letto libri di guerra e aveva ascoltato i racconti del padre e altre persone che avevano fatto la guerra. Quegli uomini tristi gli sembravano prigionieri di guerra. Uomini vinti.

La scuola del suo paese natale fu la conferma di un incubo a lungo paventato. Un vecchio convento in pessime condizioni. Le aule erano antri umidi e bui, i banchi vecchi e pieni di schegge di legno. Il giorno dopo il loro arrivo a S. il padre l'aveva accompagnato a scuola. Senza grembiule, ben vestito, i capelli divisi da una riga perfetta, Leandro si era trovato coi nuovi compagni, pochi ben vestiti, i più malmessi e, cosa che lo aveva stupito parecchio, senza scarpe. Sapeva che esistevano i poveri  ma così poveri non ne aveva mai visto. A Pesaro tutti avevano le scarpe. La mattinata passò veloce e finalmente la lezione finì. Leandro si trovò solo nella grande piazza ad aspettare l'arrivo del padre. Intorno case vecchie con intonaci scrostati e colori consumati dal sole. C'era un gruppo di ragazzini di varie età che lo guardavano male. Erano scalzi e cenciosi come i monelli di Napoli durante la guerra. C'erano alcuni adulti, appoggiati sull'uscio di casa, delle donne sedute su bassi sgabelli di legno che filavano le foglie della palma per ricavarne delle corde. Un gruppo di vecchi contadini con la faccia di cuoio sotto i cappelli, in fondo alla piazza all'angolo di un giardino polveroso  e spelacchiato fumavano e discutevano animatamente. E ad un tratto tutti gli sguardi si rivolsero verso lui. Leandro si sentì come un soldato circondato da nemici in quel palcoscenico di piastrelle di cemento surriscaldate da un sole troppo caldo. Provò un forte senso di disagio poi nella sua mente s'insinuò un filo di paura. Suo padre era in ritardo e lui non sapeva cosa fare. Poi i ragazzi cominciarono a raccogliere dei sassi da terra e guardandolo fisso cominciarono ad avvicinarsi a semicerchio. Leandro intuì il pericolo e si guardò intorno in cerca di protezione. Gli adulti sembravano statue di sale. Guardavano la scena come uno spettatore curioso guarda un film interessante. D'improvviso, partì la sassaiola. Leandro alzò le braccia per proteggersi il viso, qualche sasso lo colpì al corpo. Cercò di rifugiarsi dietro una palma della piazza ma i ragazzi lo inseguirono continuando a lanciare pietre e urla. Dal pubblico circostante si levarono delle risate. Gli uomini. Le donne si limitarono ad un sorriso e ad un commento compiaciuto sulla vivacità di loro figli. Finalmente il padre arrivò e, in un attimo, i ragazzi si dispersero dentro le case e nelle vie circostanti. L'uomo guardò gli altri con sguardo di sfida ma tutti avevano già voltato le spalle alla scena. Lo spettacolo era finito. Allora si rivolse al figlio:

- Ti hanno fatto male ?-

- No, niente di serio.- Ma non era vero. Come san Paolo sulla via di Damasco, anche Leandro, nella sua caduta, aveva trovato la verità. Lui non faceva parte di quel mondo e non voleva appartenerci. Così decise di cancellare la Sardegna dalla memoria. Cosa non facile. Per tutto il tempo, negli anni a seguire, la vita scorreva serenamente in fondo al nord ma all'inizio dell'estate, alla parola vacanze, nella mente del ragazzo si aprivano squarci enormi da dove uscivano, come lava dalla bocca di un vulcano, ricordi di episodi sgradevoli e umilianti. Alcuni fatti erano rimasti incisi profondamente come graffiti nella pietra. Alla vigilia di ogni partenza, Leandro ritrovava pensieri e paure che disturbavano le sue notti e, come mosche impazzite, lo tenevano sveglio e non lo facevano dormire.

Il paese era anonimo e privo di attrattive. Strade strette, con acciottolati sconnessi e l'asfalto solo sulle strade principali. Girare tra le case era un vero incubo. Cento occhi ti scrutavano e ti inseguivano, dalle porte e dalle finestre. Anche i muri avevano gli occhi. A Leandro sembrava di camminare nudo come il re della favola, solo che nessuno parlava. Il silenzio era così pesante che il ragazzo rientrava a casa stanco e affaticato come se avesse trascinato sacchi di carbone. Ma neanche la casa era un rifugio sicuro. Piccola e poco confortevole mancava dei servizi più elementari. Non c'era l'acqua corrente e se il fatto di lavarsi in un catino poteva essere anche divertente, la mancanza del bagno era stata una scoperta sconvolgente per i ragazzi. In quel paese ai confini della civiltà, i servizi igienici consistevano in un buco sul pavimento, appena dietro la porta d'ingresso. Un tappo evitava sgradevoli incontri tra gli abitanti delle case e quelli delle fogne. Un orinale appoggiato sopra un panchetto di legno era il sostituto del w.c. Assurdo e scomodo, pensava Leandro che non sapeva che, al contrario c'erano anche delle alternative.

Un pomeriggio che la noia lo stava distruggendo, decise di fare un giro per il paese. Magari, data l'ora e il caldo, la gente si sarebbe trovata all'interno delle case e lui avrebbe potuto passeggiare senza decine di occhi incollati alla sua schiena. Gli venne sete e decise di andare a bere alla fontana più importante del paese. Sapeva vagamente dove si trovava ma Leandro era un viaggiatore nato con un istintivo senso dell'orientamento. Giunse in periferia e scorse a fianco di una grossa costruzione semi diroccata, un sentiero alberato che scendeva verso una piccola valle. Imboccò l'ingresso del vialetto, fece pochi passi e si bloccò paralizzato. Ai bordi del sentiero due file di uomini di varie età stavano accovacciati gli uni di fronte agli altri e chiacchieravano tranquillamente.

Erano decine di persone e, con i pantaloni abbassati, stavano tutti cagando. L'arrivo dell'intruso non disturbò minimamente l'assemblea. Tutti sollevarono lo sguardo verso il ragazzo sconosciuto. Non c'era ostilità  nelle loro espressioni anzi sembravano invitarlo a cercarsi un posto libero e ad aggregarsi alla cerimonia collettiva. Leandro cominciò ad indietreggiare lentamente, le braccia sciolte lungo i fianchi e gli occhi socchiusi fissi su quella strana adunanza. Sembrava John Wayne in uno dei suoi classici duelli. Appena fuori della vista dei suoi “avversari” si mise a correre ma non fece molta strada. Si fermò di colpo e si mise a ridere e a ridere tanto che gli vennero le lacrime agli occhi.

Per molti anni, in seguito, ogni volta che in televisione, durante il telegiornale, sentiva parlare di seduta di gabinetto, Leandro scoppiava a ridere. Pensando a tutti quegli uomini seri e compunti accovacciati a pantaloni e mutande giù, impegnati a discutere e a risolvere i problemi del popolo italiano.

- Allora l'hai vista la fontana?- Gli chiese la mamma.

- Veramente non sono riuscito ad arrivare.-

- Come mai ?-

- C'era uno sbarramento.-

- Uno sbarramento?-

- Si. Mezzo paese stava facendo la cacca.- La mamma lo guardò perplessa.

- La prossima volta dimmi dove si trova il gabinetto delle donne così evito di

  passarci.- Poi chiuse la discussione con:

- In bel posto mi avete portato.- Era sempre lo stesso argomento. I genitori continuavano a ribadire che quello era il loro paese natio, era la loro terra. Ma Leandro era duro.

- E' il vostro paese, non il mio. Questo è il paese delle mosche.- La presenza, esagerata, delle mosche era un tormento continuo. I mondezzai alle periferie del paese erano una vera fabbrica d'insetti d'ogni genere. Ammazzare mosche era un'attività quasi lavorativa per Leandro e Giuseppe; ogni metodo era buono ma il preferito era quello di colpirle al volo utilizzando degli elastici riconvertiti a fionda.

Di fronte alla casa della nonna c'era un negozio di alimentari. Un bancone di vendita, una bilancia e una serie di mobili a cassetti al cui interno, ben ordinati, i vari generi di alimenti che venivano venduti sfusi: pasta delle varie pezze, riso, legumi, sale. Che qualche formica passeggiasse nella farina ci poteva stare, che gli scarafaggi avessero la tana sotto il banco pazienza ma quelle lunghe e sottili strisce di carta moschicida appese al soffitto del locale erano impressionanti. Forse le cambiavano una volta all'anno ma generazioni di mosche erano rimaste incollate in quella trappola formando strati sovrapposti di insetti morti. Ad ogni soffio, quei nastri anneriti cominciavano a dondolare e a danzare nell'aria e qualche mosca finiva con lo staccarsi e veleggiare dolcemente sopra persone e alimenti o magari nel grande barattolo di conserva di pomodoro sempre aperto. La proprietaria del negozietto, una donna piccola e scura con un bambino eternamente attaccato al seno e uno in arrivo, con un dito toglieva l'intruso dalla conserva poi se lo leccava mentre continuava ad allattare, a controllare e sgridare altri due o tre bambini seminudi (indossavano al massimo una canottiera più pasticciata della tavolozza di un pittore) che giocavano sulla strada davanti all'ingresso. Leandro non si scandalizzava per quei piccoli, maschi e femmine, nudi ma quanto erano sporchi. E poi la solita domanda:

- Ma quanti figli hanno?-

Un anno i due fratelli si erano presi i pidocchi un paio di giorni dopo l'arrivo in Sardegna. Malgrado le loro proteste erano stati rasati a zero ed avevano preteso un cappello che tenevano in testa anche di notte. Si vergognavano moltissimo per quella inattesa tosatura. A Treviso solo gli orfanelli avevano la testa nuda.

I momenti migliori erano quando andavano al mare. A volte si trattenevano per molti giorni via dal paese. Ospitati da parenti o amici, la famiglia Sanna si trasferiva armi e bagagli in campagna. Si trattava sempre di modeste abitazioni agricole che talvolta avevano come dependance delle baracche costruite con le canne. Non c'erano molte comodità, il bagno era dietro il primo albero che trovavi e, per carta igienica, foglie di vite alternate a pezzi di giornale. Ma la vita all'aperto era gradevole.

Una volta avevano caricato un carro trainato dai buoi. Una decina di chilometri al massimo ma il viaggio era stato esageratamente lungo. I buoi non hanno fretta. Tutti seguivano a piedi. Leandro era incantato da quell'antiquato mezzo di trasporto; saliva e scendeva dal carro in continuazione. Giuseppe invece era sempre incollato ai buoi. Non ne aveva mai visti prima e poi con quelle code in continuo movimento a scacciare nugoli di mosche.

- Ho capito a cosa serve la coda negli animali.- Finalmente aveva qualcosa da insegnare al fratello maggiore. La vita in campagna era semplice. La mattina una colazione a base di frutta, la nonna sbucciava decine di fichi d'India.

- Non ne mangiate troppi che stringono.- Diceva in dialetto

- Che cosa stringono?- Chiedeva Giuseppe.

- Il culo, scemo.- Le spiegazioni di Leandro al fratello erano sempre sintetiche e gentili. A metà mattinata c'era il via libera per andare al mare. Si attraversava la strada e via di corsa sulla spiaggia, quasi sempre coperta di alghe morte. Spesso lo strato di paglia marina superava il metro d'altezza e si trasformava in trampolino naturale da cui tuffarsi. E' vero che prima di toccare l'acqua dovevi passare per una massa marrone e densa come un budino ma bastava avanzare di qualche metro per ritrovare un'acqua limpida e trasparente come poche e ricominciare a rituffarsi e ritornare puliti. Quando i ragazzi ritornavano a riva si riempivano di nuovo di alghe che si incollavano alla pelle. Allora si mettevano a cercare un punto della spiaggia più pulito dove lavarsi. Il sole asciugava quel che rimaneva sulle gambe ma quando le alghe si seccavano, con le mani, le spazzolavano via. Poi di nuovo verso la campagna con la nonna che li aspettava con un piatto di frutta fresca.

Una volta il padre propose:

- Oggi andiamo a mangiare l'aragosta.-

Quella volta il trasferimento avvenne in pullman. La distanza non era molta, venti chilometri ma impiegarono oltre un'ora perchè il mezzo era vecchio e lento e sbuffava e ansimava come un vecchio e accanito fumatore.

Finalmente dopo una serie di curva e controcurve a picco sul mare giunsero in cima ad una collina. Un lungo rettilineo scendeva diritto in un golfo dove un'ampia spiaggia sabbiosa faceva da cornice ad una mare dipinto con tutte le sfumature del blu e del verde. Poche case e alcuni grossi palazzi isolati che ospitavano istituti religiosi, sembravano sentinelle perdute in quel deserto di sabbia. Dall'altro lato della strada, una serie di colline saliva dolcemente ad incontrare il cielo, dove poche nuvole basse cercavano di sfuggire all'invadenza di un sole sfavillante.

- Questo paesaggio è una cartolina da conservare.- Pensò Leandro.

Il ristorante era in realtà una piccolissima casa di campagna ripulita e imbiancata. Sullo spiazzo davanti alla porta, su un battuto in cemento, una tettoia di canne, quattro tavoloni lungi e stretti e alcune panche per sedersi. Su un pezzo di tavola inchiodata ad un palo, l'insegna del locale scritta da una mano molto incerta: da Tore. Il signor Tore, il proprietario, era un pescatore del vicino paese che si era inventato una seconda attività di ristoratore e insieme alla moglie, la cuoca ufficiale, proponeva ai pochi clienti, operai dei vicini cantieri che cominciavano a nascere e a qualche raro turista di passaggio, una cucina semplice ed economica fatta perlopiù col suo pescato e prodotti locali.

- Andiamo a vedere come si cucina l'aragosta.-  Propose il padre. I ragazzi accettarono di buon grado perchè non solo non avevano mai visto un “simile animale” ma avevano idee molto vaghe di cosa fosse un'aragosta. Leandro aveva frugato invano nella sua memoria; nei suoi libri non aveva mai trovato nessuna citazione. Capiva soltanto che era un qualche parente dei gamberi ma molto più grossa. In effetti era un crostaceo di quasi due chili di peso. Giuseppe quando vide quelle lunghe antenne e tutte quelle zampe in movimento cominciò a preoccuparsi e quando l'aragosta cominciò a muoversi sopra il tavolo della cucina preferì fuggire all'aperto. Il signor Tore legò il crostaceo con un pezzo di spago, riempì una grossa pentola d'acqua e v'infilò l'animale che non fece nessuna resistenza. Un bagno fresco è sempre gradito. Poi accese il fuoco in un fornello dove un altro pentolone pieno di sugo di pomodoro stava borbottando in una lenta cottura. Per un po' non successe niente poi la temperatura dell'acqua cominciò a salire fino al punto in cui l'aragosta decise che era troppo calda. Sciolse i legami e schizzò via dalla pentola come un razzo. La pentola si rovesciò colpendo la consorella con il sugo. L'acqua bollente tinta di rosso si sparse per la cucina e sul pavimento colpendo il signor Tore che travasava il vino e la consorte che stava tagliando le verdure. Le urla e le scottature dei malcapitati richiamarono i clienti in attesa e, nella confusione di chi voleva entrare e di chi voleva uscire, l'aragosta, che saltava come una molla, cercò di raggiungere la porta. La sua fuga fu molto breve. Mani enormi con calli a prova di ustioni la bloccarono. Fu legata di nuovo e questa volta con doppia corda e fu restituita alla pentola e al suo destino. I ragazzi non avevano mai mangiato carne così buona.

- Possiamo mangiarne sempre?- Chiese Giuseppe che, dopo un'enorme piatto di gnocchetti al sugo aveva il volto talmente sporco che un tovagliolo non era bastato a dargli un aspetto decente.

- Non è cibo che si possa mangiare tutti i giorni.- Rispose il padre e fu facile profeta perchè allora l'aragosta costava meno della carne ma in futuro sarebbe diventata un vero lusso.

Leandro stava mangiando un grappolo d'uva bianca. Si sentiva benissimo, in pace col resto del mondo. Lo sguardo si spostò sul tavolo vicino dove un gruppo di sei o sette muratori stava concludendo il pranzo. Uno di loro estrasse da una busta di carta una pezza di formaggio da colore strano e con una pattadese (il tipico coltello sardo a serramanico) invece di tagliarlo a spicchi, fece un'incisione circolare, poi tolse il tappo. Dal cratere cominciarono a uscire centinaia di piccolissimi vermi bianchi ma non andarono molto lontano. Gli uomini li inseguirono sul tavolo con piccoli pezzi di pane e se li mangiarono insieme alla crema del formaggio.

- Ma stanno mangiando i vermi! E pure vivi.- Giuseppe era al massimo dello stupore. Anche Leandro era disorientato. Gli uomini notarono l'espressione dei bambini. Un operaio in canottiera ma col berretto in testa, talmente abbronzato che sembrava un africano, rivolse loro la parola in sardo. I due fratelli non capirono niente.

- Non vedi che sono continentali. Parla in italiano.- Intervenne un altro.

- Ne volete assaggiare un pò?- La faccia dei ragazzi dovette essere una risposta molto eloquente perchè tutti  scoppiarono a ridere.

- Quello è formaggio marcio, una specialità molto prelibata. Offrendola a voi quei signori hanno avuto nei vostri riguardi un gesto di simpatia e ospitalità.- Disse il padre. Leandro prese atto della spiegazione e ringraziò anche a nome del fratello quei gentili signori ma non era il caso di accettare. In seguito scoprì sui libri che i “vermi” erano larve di una particolare specie di mosca e che il formaggio era vietato perchè pericoloso per la salute.

- Un buon bicchiere di Cannonau risolve ogni problema.- Gli spiegò il padre ma Leandro ebbe un'ulteriore conferma  che i sardi erano quantomeno gente strana. Inutilmente il padre cercava di convincerlo che loro erano sardi da sempre e che anche le sue radici erano in quel luogo benedetto da Dio. Un giorno, gli diceva sempre, avrebbe capito e apprezzato le sue origini. Ma Leandro sembrava rifiutare la Sardegna in blocco. 

Forse perchè non era mai riuscito a farsi degli amici tra i coetanei e frequentava solo persone adulte. Altre volte era stato vittima di sassaiole da parte di altri ragazzi ma ormai aveva imparato e sapeva schivare gli agguati. Aveva scoperto da tempo di aver un gran talento per la corsa. Era molto veloce e pochi riuscivano a stargli dietro anche tra i ragazzini più grandi. La fuga era un ottimo modo per togliersi dai guai.

Inoltre non aveva una grande simpatia per i vari parenti. Tutti adoravano Giuseppe simpatico ed estroverso e se lo coccolavano in continuazione. Lui invece non piaceva. Certo nessuno lo avrebbe mai detto, ma quel ragazzino che non sorrideva mai, che guardava tutto e tutti in silenzio, che sembrava volerti leggere dentro, era irritante. Certo un bambino posato, intelligente e molto maturo per la sua età (Ma quant'è bravo! Dicevano con ammirazione come si fa con le scimmie ammaestrate) ma anche presuntuoso, saccente e in definitiva da frequentare il meno possibile. La sua passione per i libri e per lo studio sembrava un'anomalia se non una malformazione genetica per quell'antica razza di contadini. In quella sconfinata famiglia con decine di zii e un numero infinito di cugini, Leandro era il primo destinato a continuare gli studi. Degno di rispetto ma antipatico.

Un giorno, parlando con la nonna, aveva scoperto che il suo nome non era quello vero. Anche le pagelle scolastiche riportavano il nome Leandro ma si trattava del nome familiare con cui l'avevano chiamato tutti fin dal giorno della nascita. A che serve dare un nome ad un bambino per poi chiamarlo con uno diverso. La Sardegna diventava ogni giorno una continua fonte di rivelazioni non sempre piacevoli. Cos'altro avrebbe dovuto scoprire crescendo. Veniva da un mondo che lo respingeva e che lui non riusciva a capire. Abitudini, costumi, modi di ragionare che sfuggivano alla sua comprensione. Non aveva amici, le persone che formavano la sua vasta parentela erano degli estranei e parlavano pure una lingua incomprensibile. Gli avevano nascosto anche il suo vero nome. Sentiva di non avere radici, un'identità precisa. Straniero in terra straniera.

Cos'era veramente ?

 

Epilogo

Il viaggio fu lungo e noioso. Presto calò la notte e anche la campagna che correva fuori dal finestrino divenne una tela nera con qualche luce ogni tanto a illuminare case isolate, strade di campagna, filari di alberi, piccoli paesi che apparivano e sparivano come fantasmi. Quella notte il treno era un'illusione che fuggiva via. Quando arrivarono a Brescia Leandro era troppo stanco per pensare.

- Attento ai bagagli.-

- No, tu prendi in braccio tua sorella che s'è addormentata.-

- Giuseppe stai fermo.- Il padre distribuiva ordini e disposizioni mentre raccoglieva pacchi e valige. Leandro si guardò intorno, in fondo al viale una grande fontana luminosa sembrava dargli il benvenuto. Quando avrebbero finito di girare per l'Italia come nomadi. Era stufo di dover ogni volta ricominciare daccapo. Un'altra città, un'altra scuola, altri amici. Tanta fatica. Quando si sarebbero fermati ?

E Nuccia, cosa avrebbe fatto Nuccia?

Leandro studiava la nuova città così ricca di luci, di rumori, di macchine. Così diversa da Treviso. Mentre aspettavano un taxi, passò una coppia con una ragazzina. Era bionda, di un color simile al grano e aveva circa l'età di Leandro. Si girò e gli lanciò un sorriso. Giuseppe infilò l'ennesimo gomito nel fianco del fratello.

- Hai visto. Hai fatto colpo. Magari ha un'amica più piccola.-

- E piantala!- Ma era davvero carina e Leandro rispose istintivamente al sorriso con un ciao. Poi cominciò a riflettere. Forse questa città aveva qualcosa da offrire, una nuova partita da giocare, un domani da scoprire. Sentì che qualcosa in lui era cambiato radicalmente e capì che la sua infanzia era finita di colpo. Il passaggio all'adolescenza era stato brusco e improvviso, troppo veloce, come il treno che lo aveva portato a perdersi nella notte.

- E adesso cosa devo fare ?- La domanda che per tutto il viaggio aveva cercato d'ignorare gli scoppiò dentro col fragore di una bomba. Brandelli di pensieri si sparsero nella mente confusa e spaventata. Cercò suo padre e sua madre che si muovevano avanti e indietro come automi senza controllo. Intorno a lui, rumori di macchine e clacson, uomini e donne sembravano marionette impazzite mentre la città sparava le sue luci in tutte le direzioni. Il ragazzo chiuse gli occhi, era il suo modo di isolarsi dal mondo, e li tenne chiusi fino a quando la voce del padre non lo richiamò alla realtà.

- Dai, andiamo.- In quei pochi attimi la sua vita gli era passata davanti come in un film proiettato a tutta velocità. Leandro ritrovò il presente e capì che tutto era cambiato e anche lui era cambiato. Decise di ricominciare da zero, cosa non facile visto che tutti i suoi punti di riferimento erano rimasti a Treviso.

Leandro era rimasto a Treviso. Lui doveva rinascere col suo vero nome.

Leandro era solo il nome di un bambino che ormai non esisteva più. Leandro non era mai partito. Era rimasto insieme a Nuccia e agli amici delle case INCIS, prigioniero in una città perduta da qualche parte. Come l'isola che non c'è. Come nella favola di Peter Pan.

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