I ragazzi delle case INCIS cap 11°

 

Capitolo 11° Ha ballato una sola estate

Quando andarono ad abitare alle case INCIS, Leandro rimase molto colpito dal campo di calcio all'interno dell'area di pertinenza, un lusso che allora nessuno poteva permettersi. I dipendenti dello Stato evidentemente si. Il campo era stato costruito poco tempo prima per iniziativa del padre di Bove, un capitano dell'esercito di stanza nella vicina caserma, che aveva utilizzato ruspe e soldati nel tempo libero per regalare un sogno a tutti, o quasi, i ragazzi del circondario. Le partite di calcio erano frequenti, la squadra delle case INCIS contro il resto del mondo. Anche Leandro partecipò a parecchie partite. Mancava sempre l'undicesimo giocatore e allora Renato, che era il capitano anche della squadra di calcio e l'allenatore, si rivolgeva verso il gruppo degli eterni panchinari e sospirava:

- Gioca Leandro.- Il ruolo era sempre incerto: da terzino destro a terzino sinistro a terzino e speriamo bene! Ma Leandro era negato per il pallone e così finì col giocare in porta proprio nell'ultima partita, quella più importante di quella stagione. Una finale da campionato del mondo, loro i Draghi di via Monte Grappa contro quella squadra di pellegrini che abitavano nella zona della ferrovia, i Leoni di porta Altinia, come si facevano chiamare con molta presunzione.

Gli avversari in realtà non erano molto bravi ma avevano un centravanti che sembrava un toro e spaventava qualsiasi difesa. Infatti segnò il primo goal dopo pochi minuti. Leandro neanche lo aveva visto il tiro, aveva sentito un sibilo alla sua destra e il pallone era finito in rete. Guardò i suoi compagni e loro guardarono lui. Cominciava male. Il portiere titolare era partito con la famiglia per le ferie al loro paese, al sud. Dopo il primo tempo, malgrado la regia di Renato e l'agilità di Giuseppe, un furetto che sgusciava da ogni punto del campo dribblando avversari ed amici, perdevano tre a due.

- Muoviti.-

- Non stare fermo tra i pali.-

- Va incontro all'avversario.-

Tutti gli dicevano cosa fare, tutti allenatori bravissimi ma in porta c'era lui e quando quel bestione del centravanti avversario partiva dalla metà campo, Leandro cominciava a sudare. Per fortuna che Bove andava per le spicce nel fermare i giocatori delle altre squadre. Dato che, tecnicamente non era granchè e il peso gli tagliava subito il fiato, si fermava spesso e aspettava il nemico come un leone la preda. Poi caricava come un elefante infuriato. Difficilmente finiva una partita, era abbonato alle espulsioni ma era utilissimo alla squadra perchè metteva fuori gioco almeno due o tre dei giocatori migliori. Finalmente la partita giunse a pochissimi minuti dalla conclusione. Si ritrovarono in parità (cinque a cinque), quando l'arbitro, il garzone del vicino negozio di alimentare, grande appassionato di calcio e sedicente arbitro, concesse un rigore contro i Draghi.

Leandro sprofondò nel terrore assoluto. Avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo, a scuola o magari in chiesa.

Il fratello gli faceva le boccacce. Giuseppe si prendeva la sua rivincita, nel calcio lui era bravo, anzi bravissimo, un vero talento e lo sapeva. Lucianino si mise a studiare una zolla d'erba vicino alla porta e aveva la faccia dei momenti peggiori. Bove, spalleggiato da Danilo, non diceva nulla ma lo guardava di traverso. I due sembravano avvoltoi pronti a calarsi sulla vittima sacrificale. Giulio Cesare gli si avvicinò e gli disse che lo avrebbe cancellato da amico. Matteo giurò che non gli avrebbe più prestato un solo giornalino neanche  pagando. Giacomo sembrava una iena ridens. Anche le ragazze lo guardavano male, solo Nuccia gli lanciò un sorriso d'incoraggiamento. Renato si avvicinò:

- Non aver paura. Ce la puoi fare.- Il toro si sistemò bene il pallone, lo guardò con espressione cattiva come a dire “a te, ti mangio in un boccone”, poi prese la rincorsa e sparò una cannonata. Leandro chiuse gli occhi e si buttò verso il pallone. Sentì un dolore acuto al polso destro come se la mano gli si fosse staccata di colpo, poi un boato:

- Parata!-

Aprì gli occhi, gli amici gli si buttarono addosso felici per abbracciarlo, ebbe la visione fugace del centravanti avversario a bocca aperta, impietrito dallo stupore e capì di essere un eroe, una sensazione bellissima ma la mano gli faceva un male d'inferno. Vinsero la partita sei a cinque, perchè per la delusione di quel rigore fallito, gli avversari si aprirono al contropiede di Giuseppe che, di sinistro, infilò il portiere con un diagonale impossibile da parare.

Leandro passò il resto della serata con la mamma e la nonna che gli facevano applicazioni di panni ghiacciati, pappette strane e altre diavolerie. Il dolore era tremendo però che emozione ripensare alle feste degli amici, all'ammirazione delle ragazze. Persino Domenica, aveva raccolto una margheritina dal prato e gliela aveva offerta con uno dei suoi rarissimi sorrisi. Anche Giuseppe gli aveva detto:

- Sei forte.-

Non gli capitava spesso di essere al centro dell'attenzione. L'eccessiva timidezza lo portava a nascondersi e, di conseguenza, ad essere sottovalutato dagli altri. L'inaspettato successo gli aveva procurato nuove e gradevoli sensazioni. Pensò che non era così male salire sul palcoscenico e che magari poteva ... ma il dolore lo riportò ad una più triste realtà. 

Il consiglio di famiglia, col voto contrario del padre (uno contro due, la mamma e la nonna) decise di rivolgersi alla zia Peppa, una vecchia mezza maga e mezza guaritrice, esperta in filtri vari e medicine con le erbe. Il padre provò ad opporsi, parlando di sciocche superstizioni, ma la democrazia si basa sui numeri, non sul buonsenso. L'appuntamento fu fissato dopo cena, presso la vicina trattoria dove la vecchia andava ogni sera per leggere le carte e guadagnarsi qualche soldo e un bicchiere di vino. I suoi genitori si accomodarono nella saletta a guardare la televisione mentre Leandro fuori, sotto la veranda, affrontava l'orribile vegliarda. La fattucchiera gli controllò il polso, tastò a lungo tutti i muscoli e le ossa della mano, con una competenza degna di un primario ortopedico. Al padre, diffidente, che ogni tanto si affacciava dalla saletta per controllare, disse:

-  Stia tranquillo. Questa non è roba da dottori.- Quando si sentì pronta disse al ragazzo:

- Adesso fai un bel respiro profondo e guarda verso il cielo. Guarda se vedi Venere, è la stella più luminosa.- Leandro sollevò gli occhi e la vecchia con un colpo secco tirò l'articolazione. Un dolore infinito, un urlo che fece sobbalzare tutti gli avventori all'interno della trattoria. Leandro vide più stelle di quante ce ne siano mai state in cielo ma un secondo dopo il dolore era cessato e la mano era guarita. Guardò la vecchia attraverso un velo di lacrime. Non era una strega e non era così brutta.

- Grazie.-

Il sorriso della donna si perse tra i pochi denti sparsi a casaccio nella bocca.

- Ti xe un puteo molto coraggioso.- Leandro smise definitivamente col calcio. Il padre, grande tifoso, lo portò una volta a vedere una partita del Treviso. Non riusciva a capacitarsi come mai, proprio suo figlio, fosse indifferente a quello sport. Il ragazzo, dopo un quarto d'ora di una noia impossibile, chiese il permesso al padre e se ne tornò a casa.

Preferiva quando il padre lo portava da altre parti, come quando andavano a Paese dove c'erano degli amici sardi o a Venezia, quando il padre lavorava in quella città. Una volta andarono solo loro due. Il viaggio fu molto breve da Treviso ed anche il vaporetto, che solcava le acque limacciose del Canal Grande, fu una delusione: una carretta vecchia e rumorosa che arrancava come un ciclista spompato in salita. Lui era abituato alle grandi navi che, durante le vacanze estive, lo portavano in Sardegna.

La giornata era grigia e fredda, i vicoli, bui e maleodoranti, trasudavano muffa e umidità. Il padre aveva alcune cose veloci da sbrigare in ufficio e il ragazzo rimase sulla piazzetta a curiosare. C'era un negozio piccolissimo dove il fratello gemello di mastro Geppetto aggiustava e risuolava scarpe. Un odore piacevole di pellame e cuoio gli solleticò il naso facendolo starnutire. Undici rumorosissime bombe: era quasi un record.

- Salute !- gli fece il calzolaio- Cossa ti ga nel naso, una mitraglietta ?- Poco lontano, una vetrina esponeva opere in vetro di Murano. Leandro non aveva mai visto niente di più bello, quelle forme artistiche sembravano aver rubato la luce del sole per poi restituirla in un caleidoscopio di colori. Certamente il regno della fantasia era fatto di luce e vetri colorati come gli oggetti e gli animali veri e immaginari che, colpiti dalla luce, esplodevano in tutte le direzioni e mandavano mille raggi fuori della vetrina. Al confronto anche i suoi sogni più luminosi sembravano un paesaggio scolorito. Rimase parecchio tempo davanti al negozio, poi, all'improvviso, un raggio di sole forò le nuvole e accese la piazza. I vicoli s'illuminarono, anche le facciate delle case presero colore e i suoni e i rumori divennero più vivi. In un angolo ancora buio, un gatto dormiva tranquillo e indisturbato. Leandro si avvicinò e scoprì che non si trattava di un gatto. Incredibile, non aveva mai visto un topo così grosso.

Per molto tempo Venezia rimase nella memoria del ragazzo come un labirinto di vicoli scuri dove il tempo non aveva fretta, dove l'ombra tra gli alti palazzi era una coperta che nascondeva suoni e colori. Non era certo paura la sensazione che aveva provato, forse tristezza. Sarebbe tornato altre volte a Venezia e avrebbe scoperto le meraviglie di quella incredibile città ma, in quella fredda e grigia giornata primaverile, Leandro pensò che l'anima della città si nascondeva in quelle strade senza tempo, nell'acqua densa e troppo verde che ti sbarrava il passo e non ti faceva andare via.

Il campo di calcio esaurì la sua funzione all'inizio del 1957. Gli affittuari delle case INCIS si riunirono in condominio per la gestione delle parti comuni e nominarono un amministratore. Il geometra Esposito era un napoletano che lavorava all'ufficio del catasto. D'età indefinita tra i quaranta e i sessanta era un uomo che passava inosservato, solo i ragazzi avevano notato quella strana camminata dovuta ad una pancia che arrivava mezz'ora prima del proprietario. Infatti lo avevano soprannominato “pancia rotolante” .

Malgrado l'origine, era una persona molto riservata. Era molto apprezzato nel suo lavoro per l'estrema precisione al limite della pignoleria. Nessuno sospettava che odiasse il gioco del calcio e i bambini (eppure aveva una bambina anche se molto piccola d'età). Bisogna dire che le finestre del suo appartamento si affacciavano proprio sul campo e, a dirla tutta, una volta (ma solo una volta !) un pallone maligno aveva disegnato una strana parabola e aveva finito la sua corsa proprio contro i vetri della camera da letto del signor geometra. E' anche vero che le partite più rumorose e incandescenti si svolgevano sempre dopo le quattordici, quando il geometra Esposito, stanco  da una giornata di duro lavoro, si abbandonava alla morbidezza di un comodo divano letto, ma piantare due filari lungo i lati del campo, quattro metri dentro la linea bianca è il massimo della cattiveria. I ragazzi si lamentarono coi loro genitori, inutilmente.

- E'la legge.- Ripetevano tutti. Strane leggi, pensavano i ragazzi e non sapevano che di lì a pochi anni, altre leggi avrebbero frazionato il campo di calcio e il terreno teatro dei loro giochi per venderli ai privati. L'economia cominciava a crescere e c'era bisogno di nuove case, stava nascendo il mercato immobiliare e la speculazione edilizia si preparava a mettere le mani sulle città.

Ci fu un assemblea aperta anche agli altri ragazzi del circondario. Il problema interessava e coinvolgeva decine se non centinaia di ragazzi di varie età. L'unica soluzione partorita da un incontro di tante intelligenze fu quella di spezzare gli alberelli ad uno ad uno, prima che crescessero troppo. Dopo accanite discussioni la proposta fu scartata. A parte che sarebbe stato come firmare il delitto, gli alberi rotti sarebbero stati sostituiti con altri. Il geometra Esposito era un uomo tenace. Alla fine Matteo, improvvisandosi stratega degno di Cadorna, disse:

- Secchiamo tutti gli alberi pisciandoci sopra.-

- Ma funziona?-

- Ignorante, non sai che il piscio è pieno di urina ?-

- Magari si chiama urea.-

- Non importa come si chiama, l'importante è che bruci le piante.- Cento teste si misero a riflettere così intensamente che, anche il silenzio che seguì l'inconsueta proposta, era pieno di rumori. Poi Lucianino, che era rimasto cupo e silenzioso, chiese:

- Ma a te chi te l'ha detto che il piscio secca le piante ?-

- A casa il gatto ha seccato tutte le piante e la mamma s'è arrabbiata parecchio.

- Sarà. Proviamo pure con una pianta, ma dovremo essere in tanti.- Quella sera di un tiepido marzo, oltre una cinquantina di ragazzi dai sei ai dodici anni, con la scusa della festa di san Giuseppe, si ritrovarono al campo di calcio. I genitori non fecero obiezioni per quell'anomala uscita notturna, perchè era una giornata festiva. Il tempo era sereno e potevano andare a vedere la televisione al bar o da qualche amico. I ragazzi circondarono il primo albero della fila, quella sul lato opposto, nascosto alla vista del geometra Esposito o di qualche suo complice. Poi cinquanta zampilli innaffiarono l'incolpevole pianta. L'operazione fu ripetuta nei giorni seguenti a turno e da chi ne aveva la possibilità. Dopo una settimana l'albero sembrava ancor più rigoglioso.

- Forse funziona solo col piscio dei gatti ?-

- Dimmi dove li troviamo cinquanta gatti disposti a collaborare.- Lucianino voleva strangolare Matteo ma si limitò a sfotterlo. Quando fu chiaro a tutti che la cura era stata inutile, Matteo fu sputacchiato e coperto d'insulti per giorni e i ragazzi si rassegnarono a giocare a pallone facendo lo slalom tra gli alberi.

Era scomodo, te li trovavi sempre in mezzi ai piedi e finivi con lo sbatterci contro. Avevi l'impressione che gli alberi si muovessero da loro posto per andare incontro ai giocatori. All'ennesimo scontro, Lucianino perse la pazienza. Un graffio sanguinante aveva diviso la sua fronte in due metà perfette. Lanciò un urlo alla Tarzan e con le mani, con un solo colpo, spezzò l'albero in due. Poi si lanciò verso gli altri alberi. Il volto era una maschera di sangue. Ne spezzò altri due e tre poi si buttò a terra stanco e piangente. Gli altri ragazzi lo guardavano spaventati. Nessuno si avvicinò e nessuno disse niente. Lucianino aveva di questi momenti. Era un ragazzo calmissimo e buono con uno strano ma divertente senso dell'ironia. Gli amici lo adoravano ma lui aveva dei periodi in cui sembrava assente, lontano col pensiero. Ogni tanto degli improvvisi scatti d'ira, magari per futili motivi e diventava una furia con una forza sovrumana. Tutti i ragazzi fuggivano in quei momenti perchè poteva essere pericoloso. Lo stesso Bove lo rispettava e lo temeva.

La madre di Lucianino, una donna piccola e gentile che aveva sempre una parola cortese e un sorriso per tutti, soffriva per quel suo ragazzo così dolce e terribile. Lo aveva fatto visitare da vari specialisti ma nessuno riuscì a trovare niente di anormale in quello spilungone magro e sgraziato che anche quando rideva sembrava che piangesse.

- Troverà il giusto equilibrio fisico e psichico quando crescerà, quando diventerà uomo.- dicevano illustri luminari di scienza. La madre scuoteva il capo perplessa. Lei conosceva bene il suo ragazzo, lo sapeva troppo diverso dagli altri e temeva per il suo futuro.

Lucianino morì pochi anni dopo in un incidente stradale, prima di diventare uomo. La madre pensò che forse era meglio così per quel suo figlio infelice e sfortunato. Ma smise di sorridere. Per sempre. 

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