I ragazzi delle case INCIS cap. 1°

 di Leo Spanu

Il mio primo romanzo " I ragazzi delle case INCIS"  edito nel 2012 per la EDES di Sassari è stato pubblicato su questo blog nel 2016. E' probabile che molti dei miei lettori non lo conoscano per cui lo ripropongo, naturalmente a puntate. Una curiosità: il titolo originale era "  Mille automobili. Anzi di più, quasi mille." 

A mio padre e alla città di Treviso. 

Prologo

Era la prima volta che si sedeva in un taxi. Era anche la prima volta che saliva in un automobile ma la novità non riusciva ad entusiasmarlo. Stretto tra pacchi, pacchetti e valige, col fratello in continuo movimento che sembrava avere cento gomiti da infilargli nel fianco, guardava in un punto indefinito fuori del finestrino.

C'era un gruppo di ragazzine che giocavano a palla. Le conosceva tutte, per anni erano state sue compagne di giochi. Ora, a pochi metri di distanza, erano troppo lontane, come un immagine sfuocata che non riesci a definire. Anche lei era già lontana. La cercava con lo sguardo con la speranza di cogliere un gesto, un segno, qualcosa che gli dicesse che anche lei, come lui, era colma di tristezza. Voleva scendere dalla macchina per dirle tutto quello che, per anni, non aveva avuto il coraggio di dire. Voleva salutarla, voleva dirle che un giorno sarebbe tornato. Ma il desiderio si perdeva in pensieri confusi che non riuscivano a diventare azione e parole. Il breve tragitto fino alla stazione ferroviaria fu un tempo morto che non si fissò nella memoria. Aveva negli occhi l'immagine di lunghe trecce nere, di un piccolo seno che cominciava a riempire la camicetta bianca di pizzo e di un sole brillante che, come un riflettore, sembrava seguirla nel suo gioco di giovane donna.

Aveva un dolore cupo nello stomaco e nella mente. Si sentiva tradito. Non voleva partire, non voleva andare in una nuova città. Aveva dodici anni e non capiva.

Era il 12 ottobre del 1958. Non lo sapeva, ma non sarebbe più tornato a Treviso.

             

 Cap. 1°Grazie dei fiori   

Faceva veramente freddo. Il vento, che tormentava i giganteschi platani, era carico di pioggia. Tutti i bambini erano già usciti dall'asilo e se n'erano andati coi loro genitori. Solo Giuseppe non si vedeva. Passeggiando nervosamente nel cortile deserto, Leandro malediceva il suo ruolo di fratello maggiore e i relativi fastidi. E poi, quell'incarico era una vera condanna: ogni giorno doveva andare a prendere il bambino all'asilo interrompendo il gioco sempre nel momento migliore.

- Come fratello maggiore è un tuo dovere. - diceva la mamma.

- E stai attento quando attraversi la strada. -

- E tieni tuo fratello per mano.-

Uffa! Quanto rompono queste mamme. Dopotutto anche se era il fratello maggiore, aveva solo sei anni. Finalmente, dopo un attesa quasi infinita, si aprì una porta laterale e ne uscì una suora alta e nera come un corvo che spingeva avanti un bambino sconosciuto. Era vestito solo con un grembiule a quadretti bianchi e celesti dal quale sporgevano due gambine nude, livide per il gelo. Il bambino sembrava un orfanello e stava a testa bassa per la vergogna. Leandro riconobbe il fratello solo per la gran massa di capelli nerissimi. Cosa gli avevano fatto? La suora diede poche spiegazioni con voce sprezzante.

- Portati via questo sporcaccione. Se l'è fatta addosso e abbiamo dovuto pulirlo.-

Sullo sfondo cupo del cielo minaccioso la donna, coi suoi abiti neri che si muovevano come serpenti sotto le folate del vento, era una figura minacciosa, sembrava il dio delle tempeste e degli uragani. Il bambino era completamente nudo sotto il leggero grembiule. Gli avevano tolto anche le calze, le scarpe erano slacciate. Il freddo era diventato insopportabile e cominciò a piovere. Leandro guardò la suora con aria di sfida ma lei gli voltò le spalle e rientrò nell'asilo. Allora si rivolse al fratello, gli scompigliò i capelli come faceva quando sentiva di volergli bene, poi lo abbracciò quasi a trasmettergli un pò di calore.

- Dai, andiamo a casa.-

Un paio di settimane dopo vi fu una grande festa all'asilo e furono invitati i genitori dei bambini e i loro familiari. La notizia non rallegrò molto Leandro: tutto tempo rubato al gioco. Su ordine della madre tagliò alcuni fiori dal giardino di casa per preparare un bel mazzo da portare alla festa. Erano dei gladioli violacei di un colore così intenso da sembrare blu. Non c'era altro nel giardino salvo qualche rachitica viola del pensiero. Del resto le proprietarie della casa dove abitavano, non avevano molto tempo da dedicare al giardinaggio. Erano due simpatiche sorelle di età indefinita: la maggiore Clelia, zitella controvoglia, non aveva perso del tutto la speranza di trovare il suo principe azzurro. Sempre perfettamente truccata e imbellettata, sembrava una bambola da esposizione. Aveva un evidente passione per il padre di Leandro. Gli stava sempre intorno cinguettando come un uccellino ubriaco. Ogni tanto se l'abbracciava ma:

- Solo come amica. - Diceva.

- Ah! Se avessi qualche anno di meno.- Sospirava poi.

- Almeno trenta.- Replicava la mamma, ma sottovoce per non farsi sentire, perchè l'affitto era piuttosto basso. La minore, Delia, era vedova e senza figli. A differenza della sorella, sopportata e vezzeggiata come una bambina capricciosa, lei si occupava in continuazione della salute dei suoi conoscenti e dei suoi vicini con particolare attenzione alla salute dei bambini. Vantava (diceva lei)una conoscenza della medicina naturale e alternativa che il padre di Leandro definiva preoccupante (sempre sottovoce per il motivo di cui sopra) ma la madre replicava che in fondo era solo una signora fissata ma innocua. Nessuno aveva chiesto il parere di Leandro e di Giuseppe che, guarda caso, erano le cavie preferite della signora Delia. Appena un bambino aveva un filo di raffreddore, lei era lì, peggio della Croce Rossa durante un alluvione.

- Niente di meglio di un clistere per rimettere tutto a posto- Per fortuna che la mamma faceva di testa sua. Una volta che la signora Delia si era presentata con un enorme peretta da clistere, i due bambini erano fuggiti così in fretta, che la signora aveva detto alla mamma:

- Che strano. Mi era sembrato di aver visto i pupi.-

Ma l'acqua ferruginosa, quella non erano riusciti a schivarla. Proveniva dalla fontanella al centro del giardino ed era così carica di ferro che a berla sembrava di succhiare un chiodo arrugginito. Una vera schifezza.

- Il ferro fa bene, fa tanto bene.- Diceva sempre la signora Delia. I bambini bevevano dal bicchiere che la donna porgeva e non appena lei girava la testa da un altra parte, sputavano l'acqua tra le piante.

- Non è vero che è buona, bambini ?-

- Si signora.- Aveva ragione il papà quando diceva che le signore Clelia e Delia erano due svampite. Giuseppe non sapeva bene cosa volesse dire svampite ma seguiva il fratello che annuiva. Lui sapeva sempre tutto. Le due sorelle erano sempre gentili con quella simpatica famiglia di sardi.

- Perchè spendere soldi per i fiori, servitevi dal nostro giardino.-

Leandro non si fece pregare, comprò un foglio di carta da regalo, un nastrino rosso e, col resto, due bustine di farina di castagna che divise col fratello poi preparò una confezione strepitosa. Così Giuseppe, fiero e impettito, consegnò alla madre superiore un mazzo enorme di gladioli ricevendone in cambio uno striminzito sorriso.

L'asilo era privato ed era frequentato da bambini della piccola e media borghesia del quartiere: impiegati dello stato e liberi professionisti. Leandro guardava incuriosito tutta quella gente elegante e compita che portava enormi mazzi di fiori di ogni specie e colore. In confronto quelli di Giuseppe erano i parenti poveri.

Quando finalmente arrivarono le persone importanti (Chissà perchè non dicono mai “Scusate il ritardo”. Elargiscono solo un mezzo sorriso di condiscendenza) la Madre Superiora fece il suo bel discorso. Disse tante cose sulla festa della Madonna, sull'importanza dell'educazione religiosa, sui valori della famiglia cristiana. Disse dei bellissimi fiori che i bambini avevano portato, fiori che avrebbero ornato magnificamente l'altare della cappella. Perciò: Grazie dei fiori e ancora, Grazie! Poi disse tante altre cose, sicuramente importanti, distribuendo sorrisi a destra e a manca da slogarsi le mascelle ma i bambini erano distratti dalla favolosa visione di una grande tavola imbandita di leccornie. Finito il discorso, tutti applaudirono, anche i bambini, per quel che costava, e, finalmente, venne l'ora del rinfresco.

Leandro si riempì le tasche di wafers al cioccolato, cacciò via quell'appiccicoso di suo fratello e, poichè non c'erano bambini della sua età con cui giocare, se ne andò in giro per le stanze del convento. In una camera vicino alla cappella, trovò i mazzi dei fiori accatastati e ordinati. Tutti insieme erano uno spettacolo incredibile di colori e i profumi erano talmente intensi che anche i santi appesi alle pareti avevano un espressione stordita. Visitò diversi ambienti normalmente chiusi al pubblico ma le suore erano tutte impegnate nel salone delle feste. Era libero di girare ovunque.

In una stanza, una specie di sgabuzzino, Leandro trovò i fiori del fratello. Ancora avvolti nella carta da regalo, erano stati infilati dentro un bidone della spazzatura. Il bambino tornò indietro, cercò la madre che stava chiacchierando con le altre signore e la tirò per un braccio:

- Mamma, voglio tornare a casa.-

- Vai a giocare con gli altri bambini. Prendi qualche altro dolcetto.- Leandro aveva ancora qualche biscotto in tasca, li tirò fuori, li appoggiò sul tavolo e in silenzio uscì in cortile. L'aria grigia era una coperta che rendeva tutto uniforme. La città sembrava una cartolina in bianco e nero. Il freddo era pungente, ma il bambino non se ne accorse. Chissà, forse avrebbe nevicato.

Rimasero pochi mesi in quel quartiere, il tempo necessario perchè si liberasse un appartamento nelle case INCIS e la famiglia si trasferì dall'altra parte della città. Leandro era alquanto disorientato, frequentava la prima elementare e quella era la terza volta che cambiava scuola e città. Provate a farvi degli amici in queste condizioni e Leandro era anche un bambino timido e taciturno. Ma prima di lasciare quella zona residenziale piena di ville pretenziose, simbolo di una nascente ricchezza dopo le difficoltà della guerra, Leandro ebbe suo malgrado, la ventura di scontrarsi con una suora, anzi proprio col corvaccio che aveva maltrattato suo fratello. 

Quando il bambino doveva rientrare a casa, reduce dai suoi vagabondaggi al centro della città, oltre la stazione ferroviaria, utilizzava una scorciatoia che prevedeva il passaggio attraverso i cortili interni di due condomini, lo scavalcamento di un paio di muretti e infine, attraverso il cortile di una villetta confinante, si ritrovava nel giardino delle signore Clelia e Delia. In pratica a casa. L'ingresso dell'abitazione, si trovava in una stradina lunga e tortuosa, costeggiata da ville signorili. Venti minuti di strada in più. Ma non era il tempo perso quello che preoccupava Leandro. In una villa, circondata da siepi sempre verdi, c'era un cane gigantesco. Un vero demonio uscito dall'inferno che abbaiava sempre e regolarmente al suo passaggio. E solo a lui. Leandro faceva i cinquanta metri di fronte alla villa con una velocità degna di un campione olimpionico e il cane lo seguiva ringhiando e saltando lungo la recinzione mostrando fauci degne di una tigre.

La figlia del proprietario era una bambina sua coetanea, tutta boccoli biondi come Shirley Temple, e frequentava la scuola annessa al convento delle suore. Quando il cane impazziva al passaggio di Leandro, lei arrivava di corsa, calmava l'animale e regalava un tenero sorriso al bambino nel tentativo di tranquillizzarlo e magari di fare amicizia. Ma Leandro non vedeva e non sentiva niente terrorizzato com'era da quei latrati spaventosi. Lei era una bambina dolce e gentile e non capì quando Leandro, certo animato da un meschino spirito di vendetta, le sparò un pugno sul volto. La bambina cadde a terra con un espressione prima stupita poi cominciò a piangere. La suora che aveva assistito alla scena da lontano, arrivò come una furia. Quella era la sua allieva prediletta. Due artigli agganciarono il braccio di Leandro, la suora sembrava ancora più alta e più nera. La bambina piangeva disperata, la suora si fermò incerta tra l'aiutare la piccola o punire il malvagio. Fu un attimo, Leandro si divincolò dalla stretta e fuggì.

- Ti conosco e ti troverò.- Urlò la donna ma il bambino era già lontano. Furono giorni di terrore in attesa della punizione che doveva arrivare ma c'è un santo anche per i bambini cattivi. L'appartamento nuovo era pronto, era tempo di trasferirsi. La sera prima della partenza Leandro si avvicinò alla villa dei suoi passati incubi. Il cane abbaiò ma lui ormai non aveva più paura. Vide la bambina e la chiamò. Lei girò le spalle e rientrò in casa. Leandro sentì un nodo all'altezza dello stomaco come un dolore sordo che gli rendeva faticoso respirare. Gli era già capitato qualche altra volta ma non riusciva a capire il perchè.

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