Sala d'attesa

di Leo Spanu

Ne ricordo una in particolare, alla stazione di Verona, al ritorno da un viaggio da Roma. Era l'anno 1959  ed eravamo andati a trovare  zio Giommaria, fratello di mamma, che aveva avuto un grave incidente. Io e mia madre soli dentro una città impossibile. Fino alla stazione Termini tutto tranquillo, poi la ricerca della piccola bottega di mio zio che allora faceva il sarto in proprio nella zona del Parioli. Era fuggito dalla povertà di Sorso, lasciando la numerosa famiglia alla cura dei nonni della Sardegna e della Corsica e ancora non era stato assunto al Teatro dell’Opera dove sarebbe diventato un apprezzato costumista. Ma zio da giorni non andava al lavoro e abitava nella parte  opposta della città, nella periferia desolante delle borgate. Fu allora che per la prima volta vidi le bidonvilles. Ci eravamo persi ed eravamo finiti tra le baracche di cartone e legno addossate alle mura, sotto le arcate dell'antico acquedotto romano. Niente extracomunitari solo meridionali alla ricerca di un lavoro e di un futuro migliore. Mia madre, spaventata, si aggrappava a me  mentre camminavamo tra strade piene di buche e di fango. Due persone ben vestite ed eleganti dentro una macchia di miseria e sporcizia. Io dall’alto dei miei tredici anni guardavo truce il mondo intorno a noi, pronto a difendere mia madre dai potenziali nemici. Quando finalmente trovammo la casa di zio mia madre si mise a piangere: tanti, troppi bambini e troppa povertà.
Il viaggio di ritorno che doveva portarci direttamente a Brescia  ebbe un imprevisto come capitava spesso con le Ferrovie dello Stato. Alle tre di notte fummo scaricati alla stazione di Verona; nessun treno in partenza fino alle sette del mattino. C’era brutta gente in quella sala d’attesa, anche  quelle mezze luci avevano qualcosa di sporco e di inquietante. Molti emigranti: chi andava a Brescia. a Milano o a Torino, chi in Svizzera, in Germania, Gente stanca in viaggio da ore, qualcuno da giorni, con un carico di valige di cartone legate con lo spago ma anche tanta speranza, C’erano famiglie intere, con bambini vestiti con abiti riciclati e senza nessuna voglia di giocare. Tanto silenzio e tanta stanchezza in quell’umanità che distesa su panche di legno cercava un attimo di sonno e di riposo. Anche mia madre si era assopita, distrutta dalla stanchezza. I viaggi in treno allora duravano ore  ed ore; non si arrivava mai. Io stavo sveglio, malgrado la mia giovane età avevo capito che in quel piccolo mondo della sala d’attesa non c’erano solo viaggiatori in attesa di riprendere il viaggio. C’erano anche personaggi ambigui, forse ladri, forse delinquenti in cerca di qualche occasione, non so. Avevo notato uno che non stava mai fermo e che aveva puntato molte volte mia madre. “ Se ti avvicini a mamma vedrai che sorpresa.” Avevo solo tredici anni ma fisicamente avevo quasi raggiunto la piena maturità fisica e, allora, non avevo paura di niente.
La notte passò invece tranquilla e al mattino potemmo riprendere il viaggio verso casa. Io non avevo dormito per niente preso dal mio ruolo di guerriero e dalla mia fantasia che vedeva e immaginava quello che forse c’era davvero.
Nel corso degli anni ci sono state tante altre sale d’attesa: stazioni ferroviarie, porti e aeroporti. Ho dormito ( si fa per dire) per terra  in varie occasioni durante viaggi di lavoro e di sport, per ritardi o per scioperi imprevisti. Viaggi che si sono dimostrati delle vere avventure ma vissuti con molta allegria. Solo quel viaggio, tanto tempo fa, ha lasciato un segno nella mia memoria. E oggi mi fa sorridere amaro quel ragazzino pronto a lottare contro un mondo cattivo: non sapeva che era una battaglia persa
.
Matt Condron (1967) è un pittore americano che racconta di sale d'attesa, di bar, di pullman che viaggiano nel deserto. Sedie vuote, giornali abbandonati, colazioni lasciate a metà. Non c'è più nessuno ad aspettare, sono tutti già partiti, tutti sempre lontano.












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