Storie di naia: Passo del Gavia (R)
di Leo Spanu
Il racconto è stato scritto nel 1972 ma la storia narrata si è svolta all'inizio del 1968, oltre cinquant'anni fa. Un anno importante il 1968, un anno che è finito, giustamente, nei libri di storia. Immagino che ci saranno articoli, libri, dibattiti, documentari a raccontare gli avvenimenti che hanno segnato quei giorni. Chi, per motivi anagrafici, ha vissuto quei tempi avrà di certo qualcosa da raccontare. In questo racconto c'è un altro 68.
P.S.
Il racconto è apparso la prima volta su questo blog il 27 luglio 2015 ma è stato riproposto, sempre qui, tempo dopo. Il mio amico Piero Murineddu lo ha invece presentato nel suo blog cambiando il titolo in "Passo di Gavia" (chissà perchè?) e definendolo un racconto antimilitarista. Abbiamo avuto una vivace discussione sul tema perchè lui è un accanito pacifista mentre io sono solo un uomo pacifico. Comunque lo ringrazio per la pubblicità. Il racconto è lungo ma vale la pena di leggerlo, almeno credo. anche perchè rappresenta uno dei miei primi tentativi di scrittore.
Passo del Gavia
Il racconto è stato scritto nel 1972 ma la storia narrata si è svolta all'inizio del 1968, oltre cinquant'anni fa. Un anno importante il 1968, un anno che è finito, giustamente, nei libri di storia. Immagino che ci saranno articoli, libri, dibattiti, documentari a raccontare gli avvenimenti che hanno segnato quei giorni. Chi, per motivi anagrafici, ha vissuto quei tempi avrà di certo qualcosa da raccontare. In questo racconto c'è un altro 68.
P.S.
Il racconto è apparso la prima volta su questo blog il 27 luglio 2015 ma è stato riproposto, sempre qui, tempo dopo. Il mio amico Piero Murineddu lo ha invece presentato nel suo blog cambiando il titolo in "Passo di Gavia" (chissà perchè?) e definendolo un racconto antimilitarista. Abbiamo avuto una vivace discussione sul tema perchè lui è un accanito pacifista mentre io sono solo un uomo pacifico. Comunque lo ringrazio per la pubblicità. Il racconto è lungo ma vale la pena di leggerlo, almeno credo. anche perchè rappresenta uno dei miei primi tentativi di scrittore.
Passo del Gavia
Si parte!
- Maledizione, ma non si
arriva mai?-
La voce si accese come una
fiammella sulla sterpaglia secca e subito partì un coro di brontolii
e bestemmie di risposta svegliando il piccolo gruppo irrigidito dalla
stanchezza e dal freddo.
Eravamo partiti verso
mezzogiorno, dopo un pasto veloce che era sembrato più scipito e
cattivo del solito. Un nevischio fastidioso ci aveva augurato buon
viaggio. Alla periferia di Merano un gruppetto di ragazzini ci aveva
bombardato di palle di neve e noi, indifesi dentro il nostro camion,
avevamo risposto a pernacchie e contumelie. Mica potevamo spararli.
Anche se erano i soliti crucchi che non perdevano l'occasione per
dimostrare il loro disprezzo per noi alpini, erano sempre e solo dei
bambini.
Il viaggio era stato
interminabile, ore e ore per continui saliscendi, tra valli e
montagne ricoperte di neve quanta non ne avevo mai vista. Le prime
ore erano trascorse tra scherzi e cori improvvisati. Io, tutto
imbacuccato, mi stringevo allo zaino cercando di fermare qualche
guizzo di calore che fuggiva tra i refoli di vento oltre il telone
del camion. Prima di partire mi ero fatto un'iniezione di penicillina
per bloccare la febbre ma continuavo a non sentirmi bene.
Otto ore di viaggio e non
si arrivava mai.
Nessuno parlava più, solo
ogni tanto, una voce esplodeva nel buio, maledicendo il freddo, la
stanchezza e la naia. Il camion si arrampicava faticosamente sui
tornanti del Tonale tra i mucchi di neve ammucchiati ai bordi della
strada. Alle curve, sciabolate di luci dai fari delle macchine che
incrociavamo, scoprivano squarci di abissi. Il vento ci
schiaffeggiava con raffiche di neve.
- Al Tonale ci fermiamo a
prendere un panino.-
- Chi l'ha detto?-
- Cacchio! Si spera, no?-
Infatti l'automezzo si
fermò davanti ad una luce perduta nella notte che si rivelò essere
quella di una salumeria. Saltammo giù come un'orda di selvaggi
davanti da un inaspettato bottino. Anch'io, dimenticando la febbre e
la natica indolenzita dall'iniezione, con un balzo da campione, avevo
seguito i miei compagni.
- Due minuti soltanto.-
Ringhiò qualcuno.
Ci precipitammo dentro il
negozio facendo sobbalzare la commessa già pronta a chiudere ma,
ritrovato l'istinto commerciale, la ragazza cominciò ad affettare
salame a tutto spiano confezionando una trentina di panini e
ricavandoci pure un guadagno extra. Conscio dei miei scarsi mezzi
brontolai.
- Merda! Duecento lire per
un panino microscopico. Questa tipa ci ha preso per la
gola.-
- Fregatene. Sempre meglio
che essere presi per il culo.- Replicò qualcuno.
Cercai lo spiritoso. Il
solito Giannini, un tipo mingherlino e secco come un'aringa, noto tra
i compagni come “ Baffi” per via di un bellissimo paio di baffi
formato da sei-peli-sei per lato.
- Spiegami la differenza,
Aristotele.-
Giannini non rispose, era
troppo intento a divorare un panino che una persona di normale
appetito avrebbe giudicato appena più grande di una pastiglia. E poi
dubito che avesse mai sentito nominare Aristotele.
- Sul camion, cazzo.
Svelti che si parte.-
Tutti i sergenti del mondo
sono noti per la loro gentilezza.
- Ma vaffan...- Gli
rispose una voce anonima.
Ricominciò il calvario,
stavolta però eravamo in discesa e quel residuato di guerra sembrò
ritrovare il concetto di velocità. Attraversammo Pontedilegno e dopo
un'eternità giungemmo a destinazione.
- Signori si scende.-
Lo spettacolo che si offrì
ai nostri occhi non era dei più felici. Ad un lato della strada una
minuscola pensione semisepolta nella neve, di fronte un garage.
Intorno solo la notte.
- E il paese dov'è?-
- Dietro la collina.-
- E noi dove dormiamo?-
- Nella neve, stronzo.
Cosa credevi di trovare: il Cavalieri Hilton?-
- Silenzio lì e scaricate
il materiale.-
Fummo fortunati, il
proprietario della pensione ci offrì la sua ospitalità nel garage.
Il locale era di grandi dimensioni per cui, oltre al materiale
(radio, zaini, armi) riuscimmo a sistemare anche i nostri materassini
gonfiabili e i sacchi a pelo. Il pavimento era in terra battuta,
bastava uno starnuto per sollevare nubi di polvere ma era meglio
ritrovarsi con la pancia piena di terra che dormire all'aperto.
Riuscii a litigare col
furiere che voleva mettermi di guardia.
- In primis, io sono un
infermiere e non devo fare questi servizi, in secundis ho una
febbre da cavallo.-
- Cosa vorresti dire. Devo
montare io di guardia?-
- Cazzi tuoi. Anche gli
infermieri si ammalano ogni tanto-
Dopo un acceso scambio
d'insulti, col beneplacito del sergente, mandai a quel paese quel
graduato da scrivania e, dopo essermi tolto solo gli scarponi e la
giacca a vento, m'infilai dentro il sacco a pelo.
Malgrado tutto dormii come
un ghiro. Fui svegliato solo dal casino che fanno abitualmente tutti
i sergenti alla sveglia e mi ritrovai con la bocca piene di piume.
- Anche il sacco a pelo
rotto mi dovevano dare.- Mi lamentai.
Il cielo era sereno e
c'era anche un timido tentativo del sole che cercava di uscire dalle
nuvole. La mattina fu consumata nella ricerca di ricoveri per la
compagnia che doveva raggiungerci in giornata e doveva trovare tutto
pronto e a posto.
A noi della compagnia
servizi sempre il lavoro e le rogne e pensare che, per tutti, noi
eravamo gli imboscati.
Dietro la pensione c'era
uno stretto sentiero che portava ad un gruppetto di vecchie case. La
“ commissione alloggi” era formata dal capitano Valeri,
comandante della compagnia, il tenente Sanseri, vicecomandante, e un
ufficiale medico che proveniva da un'altro reparto. Io e altri tre
commilitoni (uno era Giannini) eravamo la scorta tuttofare.
Esaminammo attentamente le strutture pensando che cento persone
dovevano trovare un posto per dormire al coperto. Le costruzioni
erano stalle abbandonate da tempo, tutte a due piani tranne una che
però aveva il tetto semisfondato. Al piano terra uno strato di
paglia vecchia e di letame antico; il piano superiore, fatto con assi
di legno, non offriva garanzie di sicurezza. Troppo pericolose anche
per gli alpini. Alla fine dell'esame avanzarono tre stalle e una
stanza, il tutto sufficiente per ricevere una sessantina di persone.
- Solo posti in piedi.
Questa è la volta che dormiamo nella neve. - Disse sottovoce
Giannini.
- Se ci stanno gli
esquimesi ci può stare anche uno stronzetto come te. Gli rispose
Rovelli, l'amico-nemico
inseparabile.
- Io sono un uomo solare e
non un bifolco della bassa padana come te.-
- Ma se sei della val
Brembana dove l'ultima volta che avete visto il sole avete
chiamato la RAI per
sapere cos'era.-
I due continuavano a
beccarsi come d'abitudine. Malgrado si scagliassero addosso
imprecazioni e oscenità di ogni genere, erano grandi amici. Io
conoscevo poco quel gruppetto di persone. Mi avevano aggregato alla
52° compagnia assaltatori come aiutante di sanità e anche quelli
che erano con me, telegrafisti e addetti ai vari servizi,
venivano aggregati in
continuazione da un reparto all'altro.
Una quindicina di persone
era stata caricata, armi, bagagli e cucina da campo e spedita avanti
a predisporre la sistemazione del reparto.
Tutto il campo invernale
lo trascorsi insieme a quei ragazzi e con loro divisi la buona e la
cattiva ventura. Legai in particolare con quattro di loro. Giannini,
il piccolo e linguacciuto telegrafista, pronto oltre che di lingua,
anche di portafoglio, per mia buona sorte. Mi spiego: essendo
piuttosto fornito di soldi, li spendeva volentieri coi compagni meno
forniti. In particolare con me che ero partito per il campo con
cinquecento lire in tasca e un pacchetto di nazionali.
Rovelli invece era un tipo
tranquillo sempre con la macchina fotografica in mano a riprendere
tutto e tutti. Portelli, un gigante triste e taciturno. Quando apriva
bocca, raramente, era per parlare della sua ragazza che doveva
sposare alla fine della naia ed aspettava un bambino. Gli venivano i
lucciconi quando raccontava della sua innamorata. Volevamo bene a
quel colosso con la faccia da bambino anche se lo prendevamo un pò
in giro. Credo per invidia. Infine Bianciardi, un comasco flemmatico
come un inglese, sempre occupato a pulire e manutenzionare la sua
radio.
Era un perito elettronico
( “ Non mi sono mica diplomato alla Scuola Radio Elettra Torino,
io” rispondeva sempre a chi irrideva la sua mania) e un
appassionato di cori di montagna. Infatti cercava sempre di mettere
insieme qualcosa di decente coi suoi commilitoni.
Fatica sprecata. Tra noi
c'erano più asini che cantanti,
La compagnia arrivò dopo
le tredici, una fila interminabile di camion. I soldati, tutte
reclute, erano stranamente silenziosi. Forse pensavano alla faticosa
esperienza che li aspettava. Per sistemare tutta quella gente fummo
costretti a cercare altre stalle, queste alquanto lontane dal campo
base che fu stabilito presso la pensione. Nel piazzale davanti alla
stessa furono tirati su due tendoni nei quali furono sistemati il
magazzino viveri e la cucina mobile. Gli ufficiali si sistemarono
nell'albergo e tutto fu in ordine.
A Sant'Apollonia ( così
si chiamava la località) restammo cinque giorni e nel complesso non
si stava male. Io avevo un lavoro d'inferno perchè i soldati si
ammalavano in continuazione. Era solo una banale influenza. Ma quel
febbraio del 1968 era da ricordare per il freddo eccezionale.
Siringai i sederi di mezza
compagnia rimettendo in sesto i commilitoni. Il capitano Valeri mi
aveva promesso l'apocalisse se il giorno della partenza tutti i
soldati non fossero stati in perfetta salute. Perchè non se la
prendeva con l'ufficiale medico?
Comunque solo due, che si
ammalarono all'ultimo momento, furono esentati dalla missione e
furono invidiati da tutti noi.
Una notte ebbi la fortuna
di dormire nella pensione. Un alpino si prese l'influenza in una
forma particolarmente cruenta con una febbre altissima e il medico
ordinò il suo ricovero in una stanza della pensione. Lo mettemmo a
letto e la visione di quelle candide lenzuola con delle calde coperte
mi provocò un gran magone. Com'era lontana casa mia e la mia stanza.
Dovetti vegliare il malato
per tutta la notte. C'erano due letti, uno era occupato dal soldato,
l'altro doveva rimanere libero. Sistemai il mio materassino
gonfiabile sul pavimento, vi appoggiai il mio sacco a pelo e intanto
guardavo quel letto vuoto come un assetato guarda un bicchiere colmo
d'acqua fresca. Maledissi me, il mondo e l'esercito ma dormii al
caldo e comodo potendo stiracchiarmi a piacere senza scalciare
nessuno.
Una sera dopo la cena feci
una scappatina in paese.
Avevo chiesto agli amici
di aspettarmi perchè impegnato nel giro di visite di controllo con
l'ufficiale medico. Invece quelli se ne andarono di corsa.
Mi sistemai le ghette
valdostane, allacciai il cinturone, infilai il pugnale e mi
incamminai verso il paese.
Era una notte di luna
piena, avanzavo faticosamente sprofondando nella neve fino al
ginocchio e mi persi. Mi guardai intorno spaventato, non avevo nessun
punto di riferimento. Mi avevano detto: vai sempre dritto. Facile a
dirsi, ero solo in mezzo a tutto quel candore. Un deserto bianco mi
circondava, non un suono, non un rumore. Una nuvola maligna coprì la
luna e in quel buio improvviso una morsa gelida strinse il mio cuore.
Rimasi immobile per un tempo che mi sembrò eterno. Io e la paura.
Poi la luna si fece largo
tra le nubi e mi sorrise.
Mi parve di sentire dei
suoni venire da lontano e mi mossi in quella direzione. Dopo pochi
passi vidi il paese. Trovai gli amici nell'unico bar aperto. In giro
non c'era nessuno.
La nostra baldoria si
limitò al penoso tentativo di sbronzarci con qualche bicchierino di
grappa. Scambiammo qualche parola coi pochi avventori e scoprimmo con
piacere di trovarci tra la nostra gente. Dopo mesi tra popolazioni
che ci detestavano, che non parlavano la nostra lingua, era una
beatitudine sentire quel dialetto duro, a volte incomprensibile ma
roba di casa nostra. Ascoltavamo i racconti e i consigli dei
montanari, tutti ex alpini.
Un vecchio con un enorme
paio di baffi bianchi disse:
- La montagna è bella ma
dura. E in questa stagione è troppo pericolosa. Non
dovreste salire sul
Gavia.-
- Eilà nonno, mica ci
andiamo di nostra volontà. E noi poi siamo alpini.-
- Benedetti figlioli. Così
giovani, così bambini.- Sospirò la proprietaria del bar, un
donnone dall'espressione
dolce, mentre ci riempiva i bicchierini.
Tornammo alla base
euforici. La cortesia dei valligiani ci aveva dato coraggio e se le
ragazze non s'erano viste, data l'ora tardi, pazienza. In quanto agli
avvertimenti e ai consigli poi. A vent'anni ti senti di prendere a
calci in culo il mondo intero.
E venne il giorno della
partenza.
- Allineati e coperti!-
Io sacramentavo sottovoce
senza ritegno. Il mio zaino non era equilibrato. Si trattava della
barella in legno, smontata e legata ad un basto a cui avevo fissato
il sacco a pelo e lo zainetto coi medicinali. Trentacinque chili di
peso mal distribuito che, ero sicuro, mi avrebbero fatto soffrire le
pene dell'inferno. E pensare che esistevano le barelle da neve
( in
dotazione alla pattuglia degli sciatori), leggere e facili da
trasportare. Che senso aveva portarsi dietro quell'aggeggio antico e
inutile.
In fila, pronti alla
partenza, ascoltavamo il discorso augurale di un maggiore.
- Le solite puttanate.-
Sussurrò al mio fianco Giannini che, come me, aveva otto mesi di
naia e si considerava ormai un veterano per non sbattersi altamente
di tutta quella retorica militaristica. Finito il comizio, il
trombettiere diede la partenza e via in fila indiana. L'ultima cosa
che vidi era il maggiore che davanti alla pensione ci riprendeva con
una cinepresa poi, lui verso posti civili e riscaldati, noi su per il
passo del Gavia.
Avremmo dovuto trascorrere
tre notti e tre giorni in quella passeggiata invernale.
- Speriamo che qualcuno
abbia avvisato il dio delle tempeste che noi siamo da queste
parti.- Disse Giannini.
- E che ce la mandi
buona.- Concluse Rovelli poi sparirono avanti. A me era toccato un
posto in coda alla colonna.
Il peso sulle spalle fu
subito insopportabile ma la prima tappa fu breve.
Ci fermammo presso un
gruppo di stalle, in una località chiamata case Predazze, delle
costruzioni disseminate in una vallata all'inizio della salita per il
Gavia.
Li passammo il resto del
giorno e la notte. Il cibo ci fu portato dai muli e fu l'ultimo pasto
caldo, almeno così era partito dal campo base. Il giorno dopo
avremmo dovuto portarci dietro anche i viveri. Speravamo in una
dotazione di razioni K ma queste furono riservate solo agli
ufficiali. A noi tre panini, dei filoncini, un pezzo di formaggio,
due mele, un limone e una scatola di pollo tonnato ogni cinque
soldati.
Furono distribuite anche
due bustine di cognac, una tavoletta di cioccolato duro come il marmo
e un gavettino di vino a testa. Il vino fu bevuto subito. Chi non lo
fece si ritrovò nella borraccia dei pezzetti di ghiaccio viola che
galleggiavano nell'acqua.
Nel pomeriggio fummo
impegnati a costruire delle specie di igloo di cui avremmo avuto
bisogno in seguito. Gli esquimesi sono dei geni dell'architettura,
noi non eravamo neppure lontani parenti. Ci limitammo a scavare delle
grandi buche nella neve, lo spazio necessario per quattro, cinque
persone, poi stendemmo sopra i nostri teli tenda personali,
fissandoli con le piccozze e legandoli tra loro con pezzi di cordino
da valanga, infine coprimmo tutto con un sottile strato di neve
lasciando solo una minuscola apertura. Quelli sarebbero stati i
nostri futuri rifugi.
In effetti, se costruita a
regola d'arte, la struttura protegge abbastanza. All'interno la
temperatura si mantiene sullo zero. Fuori, speriamo bene.
La giornata trascorse
serenamente, raccogliemmo anche parecchia legna secca, una parte per
bruciarla subito e scaldarci un pò, l'altra da legare allo zaino e
portarcela dietro. L'unica difficoltà che trovammo fu
l'impossibilità di andare di corpo. Qualche tentativo fallì
ingloriosamente. Il freddo pungente convinse tutti a non abbassarsi i
pantaloni.
- Bene!- Osservò
Giannini.- D'ora in avanti si può solo pisciare, e in fretta se no
ti si
gela in mano.-
Giunse la notte.
Ammucchiati uno addosso all'altro, non c'era spazio per muovere un
dito. Al movimento di uno brontolavano almeno altre quindici persone
smosse dall'onda. Anche l'aria non era gradevole; tra la nostra
sporcizia (non ci lavavamo da alcuni giorni) e il tanfo del letame
secco, dormimmo in una camera a gas. In quelle maledette stalle c'era
più merda che paglia.
Al piano di sopra il
capitano Valeri e il tenete Sanseri si scaldavano il caffè e la
cioccolata delle razioni K. C'era un caminetto che i soldati avevano
ripulito e riempito di legna e un letto matrimoniale semisfondato,
di quelli di una volta, massiccio e col fondo di legno. I due
ufficiali vi avevano sistemato i loro sacchi a pelo e potevano godere
di uno spazio più ampio.
Venne l'alba. Preparativi
rapidi e di nuovo in marcia. Si cominciava a salire. Un pallido sole
seguiva incuriosito quella colonna di piccoli uomini che si
arrampicavano sulla neve. Si camminava in fila indiana, in pattuglie
di una decina di persone distanziati di una ventina di metri. I
contatti erano mantenuti dai radio telefoni.
Ogni tanto ci si fermava
cinque minuti per riprendere fiato poi di nuovo verso la cima.
Camminammo per ore
lunghissime, avanzando lentamente nella neve.
Fui chiamato al lavoro. Io
ero in fondo alla colonna, dietro di me solo il tenente Sanseri come
ufficiale di coda. Qualcuno si era sentito male avanti, molto avanti.
Tutti si fermarono ed io
cominciai a risalire con quel peso maledetto che mi stava sfondando
le reni. Dopo un venti minuti ero a metà colonna e non avevo
raggiunto il mio paziente. Non avrei mai immaginato che la fila si
fosse così allungata. Un passa parola ( e i telefoni?) mi informò
che l'infortunato si era ripreso da solo e la colonna ripartì. Una
faticaccia inutile la mia. Mi fermai su uno spuntone di roccia a
riposare.
I regolamenti militari
prevedevano in questo tipo di addestramento, una pattuglia di alpini
sciatori a fare da apripista. Già dalla mattina presto un ufficiale
e un gruppo di cinque esploratori erano saliti per studiare il
terreno. Questi oltre al capitano Valeri, calzavano gli sci e
portavano sulle spalle solo le loro razioni di cibo, l'arma
individuale e il sacco a pelo. Portavano inoltre i due pezzi della
barella da neve.
Tutti gli altri calzavano
racchette da neve e portavano, oltre l'attrezzatura personale e il
fucile ( un Fal col calcio metallico retratile), anche la loro
croce. Io avevo il barellone, gli altri, gli specialisti e i
capipattuglia radio enormi (ben sei) della seconda guerra mondiale,
fucili mitragliatori e mitragliatrici Breda (definito armamento
leggero). Tutta roba che finiva col pesare un'iradidio specie in
condizioni ambientali di estremo disagio. In realtà il peso è un
fattore relativo se ben distribuito ma ci si può rompere la schiena
con pochi chili se il carico non è stabile.
La mia barella pesava da
sola venticinque chili, l'avevo pesata in infermeria a Merano. Con
tutto il resto il mio carico arrivava a trentacinque chili che
continuavano a sbattere sulla schiena mentre le bretelle del basto
scavavano le spalle.
Non ricordo nemmeno come
fu.
Mi ritrovai con la faccia
dentro la neve. Sentii qualcuno che mi dava degli schiaffetti sul
volto per farmi rinvenire, qualcun altro mi appoggiò una bustina di
cognac sulle labbra. Aprii gli occhi e vidi il tenente Sanseri.
-Su , Pastiglia, che ce la
fai.-
Il tenente Sanseri era uno
degli ufficiali più amati dagli alpini. Giovane, sempre allegro e
pronto allo scherzo, trattava i soldati con umanità e , quando era
il caso, se ne fregava allegramente dei regolamenti. Non
approfittava del suo grado e i piccoli problemi li risolveva col
buon senso e non con stupide punizioni.
Mi rimisi in piedi e,
dietro suggerimento dell'ufficiale, il mio zaino fu portato a turno
da tutti i componenti della pattuglia. Tutti furono d'accordo che
quel “coso” uccideva letteralmente. Non lo dico per giustificare
la mia debolezza, non mi vergogno di essere svenuto per lo sforzo ma
quel peso diede filo da torcere anche a gente più robusta e più
abituata alla fatica. In fondo io ero solo uno studente di città che
si trovava per la prima volta in montagna.
Alla fine del giorno
giungemmo al rifugio vicino ad un laghetto. Avevamo marciato per
otto, dieci ore, penso. Avevo perso la cognizione del tempo. Il cielo
era diventato di un grigio sempre più cupo e un vento dispettoso ci
aveva spruzzato di nevischio.
Appena arrivammo alla
costruzione seminascosta nella neve, il tempo peggiorò e si mise a
nevicare intensamente. Il vento aumentò d'intensità e le sue gelide
carezze divennero rasoiate. Ci sistemammo nella baracca peggio della
sera precedente.
Con assoluto disprezzo per
ogni legge fisica, in uno spazio sufficiente a malapena per trenta
persone, ci sistemammo in oltre cento soldati con relativo
materiale. Uno stanzino fu requisito dagli ufficiali che pretesero di
dormire più comodi. Anche la legna fu utilizzata dal capitano per
scaldarsi e prepararsi il caffè.
Io mangiai una mela e un
pezzo di formaggio dopo aver buttato via un panino che, per colmo di
sfortuna, era stato bagnato da una perdita delle bottiglietta di
tintura di iodio, sua vicina nello zainetto.
Il vento soffiò violento
tutta la notte, una vera tormenta. Sembrava che fuori si fossero
scatenati tutti i diavoli in un sabba infernale. Un rumore
impossibile ma la stanchezza era troppa. Anche dentro non era un
paradiso: la puzza dei nostri corpi, gente che russava o parlava nel
sonno o si lamentava. L'impossibilità di muoversi, eravamo come
sardine pressate in una scatoletta. Mi addormentai lo stesso.
La mattina dopo il tempo
era appena migliore, continuava a nevicare ma il vento si era
affievolito. Via quindi e seconda tappa.
Camminavamo indifferenti
allo spettacolo di paesaggi da fiaba. Seguivamo i tornanti della
strada completamente sommersa dalla neve. Ogni tanto un palo
segnaletico, un cartello stradale spuntava da sotto i nostri piedi.
Faceva uno strano effetto vedere dall'alto un segnale magari di curva
pericolosa. Costeggiammo altri due laghetti ma questo lo seppi dopo
perchè erano completamente gelati e si perdevano in quel panorama da
cartolina natalizia.
Finalmente arrivammo al
passo Gavia. Il tempo era di nuovo peggiorato e annunciava tempesta.
Ma tirammo un sospiro di sollievo come un atleta alla fine di una
maratona.
Due rifugi, uno di fronte
all'altro. Due grandi alberghi che promettevano una notte calda e
comoda. Erano chiusi ma non sarebbe certo bastata una porta a
fermarci.
Il capitano ordinò di
proseguire. Ancora avanti.
Vedemmo sparire le
costruzioni alle nostre spalle con un senso di frustrazione.
Il vento aumentava
d'intensità ed anche la visibilità era sempre più scarsa.
Camminavamo quasi sospesi in un nulla candido. Il bianco era sopra,
sotto, intorno a noi. Forse eravamo angeli perduti.
Un'altro rifugio.
-Speriamo sia la volta
buona.- Pregò una voce anonima.
Eravamo stanchi, a pezzi.
Fra poco sarebbe stata notte e il freddo era insopportabile.
Il capitano Valeri diede
l'alt alla colonna.
Gettammo gli zaini a terra
e il tenente Sanseri con alcuni alpini armati di piccozze e pale si
apprestavano a sfondare una porta quando il capitano gelò tutti con
un ordine secco.
- I soldati devono dormire
nella neve. Lo dice il regolamento.-
Il tenente cercò di
mettere in discussione l'ordine ma il capitano fu tassativo.
- Prendete la pale e
cominciate a scavare.-
Mentre i due discutevano
io fui chiamato al mio servizio. Accasciato sopra il suo zaino un
alpino rantolava vinto dalla fatica. Gli prestai i primi soccorsi e
lo sistemai al riparo (si fa per dire) dietro la vicina chiesetta.
Quel ragazzo stava male davvero e io non sapevo cosa fare. Gli altri
intanto costruivano gli igloo per la notte. I miei amici cercavano
invece di sistemare l'impianto radio e di farlo funzionare. Dalla
sera prima avevamo perso ogni contatto col campo base.
- Sei radio e nessuna che
serva ad un cazzo.- Bianciardi aveva perso tutta la sua
calma ed era furibondo.
Con la fortuna che assiste
gli stronzi, il capitano aveva trovato una porta aperta nel rifugio.
Uno stanzino, una legnaia di pochi metri quadrati, dove poteva stare
comodamente per la notte. Il tenente Sanseri, preoccupato, faceva la
spola tra i telegrafisti e il soldato che stava male, indeciso a
tutto. Le sue imprecazioni si perdevano nel vento.
Il ragazzo era sul punto
di perdere conoscenza. Aveva bisogno di stare in un posto caldo e
asciutto: la legnaia del capitano Valeri.
- Cos'ha quell'alpino?-
- Non lo so , signore.-
- Ha la febbre ?-
- No.-
- Allora può dormire
insieme agli altri.-
- Non mi sembra il caso.
-Intervenne il tenente.
Il capitano si rivolse a
me con l'espressione carogna che tutti temevamo.
- Cosa credi che abbia?-
- Non sono un medico,
signore. Non posso assumermi la responsabilità di una
diagnosi.-
L'avessi mai detto. Il
capitano esplose.
- Secondo me quel soldato
non ha niente. Qui tu sei l'unica persona che abbia a che
fare con la medicina
quindi decidi. Ma se sbagli te la faccio pagare cara.-
Il capitano Valeri
manteneva sempre le sue promesse. Mi rivolsi verso il tenente in
cerca d'aiuto. Ma lui sembrava intento a studiare le crepe
dell'intonaco.
- Allora ?-
- Per me ha bisogno di
stare al caldo.-
- Bene, portalo dentro.-
Uscii accompagnato dal
tenente. Appena fuori mi disse:
- Ragazzo, hai le palle.
Auguri.-
Sistemammo l'alpino nella
legnaia mentre il capitano continuava a promettere tutte le punizioni
del mondo a quel finto malato e a quell'imboscato d'infermiere.
Noi imboscati dei servizi
fummo gli ultimi a costruirci il rifugio. I miei amici avevano perso
un sacco di tempo nell'inutile tentativo di far funzionare le radio.
Un mucchio di rottami
inservibile e noi a romperci il culo per portale dietro.
Giannini non smetteva un
attimo di lamentarsi.
Era buio ormai e il vento
era carico di freddo e di cattiveria.
- Anche il tempo ce l'ha
con noi. Minimo siamo a venti gradi sottozero.-
Giannini era un flusso
continuo.
- E tu come fai a
saperlo?- Gli chiese Rovelli.
- Semplice. Mi si è
sigillato il buco del culo.- Rispose Giannini poi, rivolto a me:
- Pastiglia, anche in
Sardegna fa questo freddo?-
Non gli risposi, non mi
piaceva essere chiamato “Pastiglia” anche se era un vizio comune
chiamare così tutti gli infermieri. Come Dio volle anche il nostro
rifugio fu pronto.
- Benvenuti al Grand Hotel
e ricordate che qui non sono ammessi nè cani nè
puttane.-
Ci infilammo completamente
vestiti nei sacchi a pelo. Io feci la stupidaggine di lasciare fuori
gli scarponi perchè troppo bagnati così la mattina dopo dovetti
ammorbidirli picchiandoli col calcio del fucile.
Mangiammo la nostra lauta
cena e ci mettemmo a raccontare barzellette per tenerci allegri.
- Mi raccomando ragazzi
non scoreggiate.- Ordinò Giannini.
- Da quando le tue nobili
narici temono gli odori del culo.- Replicò Rovelli.
- Non è questo. Siamo tre
giorni che non caghiamo. Qui se qualcuno apre le valvole
ci troviamo nella
merda.-
Poi anche il buonumore se
ne andò. Troppo freddo e fuori, l'urlo della tempesta non invitava
all'ottimismo.
Portelli cominciò a
parlare della sua morosa con una tenerezza che zittì anche Giannini.
Ognuno si chiuse nei propri ricordi. Io non avevo nessuna ragazza che
mi aspettava a casa, niente da rimpiangere. Intanto qualcuno aveva
riempito un gavettino di neve e lo stava facendo sciogliere alla
fiamma di una candela (faceva parte della dotazione standard
individuale) il nostro impianto mobile di illuminazione. Appena
sciolta, avanza un dito (in orizzontale) d'acqua. Vi si spremeva
mezzo limone (ecco a cosa serviva!) e a turno ciascuno di noi si
bagnava le labbra. Ripetemmo quell'operazione varie volte; la sete,
oltre al freddo, era il nostro peggior nemico.
Da due giorni non bevevamo
altro, le borracce s'erano vuotate subito e quando le labbra erano
secche e la lingua s'incollava al palato, ci si riempiva la bocca di
neve e salute.
Chiacchierammo per un bel
pò. Ogni tanto si masticava un pezzo di pollo tonnato (mai sentito
nominare nella mia vita precedente) che prendevamo da un tubo lungo
trenta centimetri, pieno di una polpa marrone senza odore e senza
sapore. Con la fame che avevamo ci saremmo mangiati anche il tubo.
Giannini faceva piani e progetti per quando saremmo arrivati a Santa
Caterina Valfurva.
- Ci sono le ragazze così
e stanno aspettando con ansia il caporal maggiore Riccardo
Giannini.-
- Come no. Sono tutte con
le mutande in mano.- Rispondeva Rovelli. Infine il sonno ci colse
sull'ultimo mozzicone di candela.
La sveglia ci presentò
una giornata linda e senza nuvole. La tempesta notturna aveva
liberato il cielo. Fra poco sarebbe uscito il sole, un pericolo
preoccupante perchè in quelle condizioni ambientali c'era il rischio
di valanghe o di slavine. Ma era l'ultimo giorno di marcia.
Eravamo già pronti alla
partenza quando si scoprì che sette alpini mancavano all'appello.
Erano ancora addormentati nel loro buco sotto la neve e neanche le
trombe del Signore li avrebbero svegliati. Il capitano, ricordando le
sue origini toscane, riuscì a trovare imprecazioni non ancora
brevettate ma diede l'ordine di partire ugualmente. I ritardatari
avrebbero raggiunto la colonna a costo di spaccarsi le gambe.
Bisognava approfittare del tempo buono prima che il sole salisse alto
nel cielo. Il tenente Sanseri rimase ad aspettare con un paio di
soldati.
La pattuglia degli
assonnati raggiunse la coda del reparto dopo un'ora grazie al fatto
che c'era stata una pausa imprevista. Il capitano Valeri era
scivolato in un crepaccio
e, con nostra grande
delusione, non s'era fatto niente. C'era voluto parecchio tempo a
recuperarlo e intanto il sole cominciava a scaldare. Eravamo in
ritardo sulla tabella di marcia e un passaggio difficile aggravò la
situazione. La neve era estremamente friabile e si dovette costruire
una passerella per permettere il passaggio dei soldati.
Il nostro sogno di essere
a Santa Caterina Valfurva per mezzogiorno svanì.
Si camminava di buon passo
malgrado le racchette che sprofondavano nella neve molle, il sole ci
dava energia dopo tanto freddo. Il pensiero di essere alla fine della
nostra fatica e la strada ormai definitivamente in discesa ci
spingeva avanti ulteriormente.
Le pattuglie erano molto
distanziate tra loro, anche centinaia di metri, c'era il rischio di
slavine. La mia squadra aveva perso il contatto visivo con quella che
la precedeva.
Io mi trovavo nel
penultimo gruppo, l'ordine di marcia si era un pò confuso con tutti
quegli imprevisti e le pattuglie si erano ricomposte in base alla
velocità di marcia dei singoli. La mia squadra era troppo lenta per
la mia voglia di arrivare ma tanto io dovevo stare in coda. In fondo
alla valle si vedevano le prime case e i segni della vita beata dei
turisti.
Girammo un costone quando
un rumore sordo ci colpì. Sul momento non capimmo cosa stava
succedendo poi un sergente AUC si mise a urlare a squarciagola. Ci
mettemmo a correre giungendo sul ciglio di una vallata dove sembrava
si fosse abbattuto un terremoto. La neve era sconvolta e decine di
alberi erano spezzati.
Una slavina si era portata
via una pattuglia di commilitoni. Abbandonammo gli zaini e con le
piccozze ci buttammo a rottadicollo giù nella scarpata. Alcuni
alpini stavano già scavando, le altre pattuglie stavano tornando
indietro. In pochi minuti ci trovammo in una trentina di persone a
bucare il fianco della montagna. Quattro li recuperammo subito, i
loro corpi erano semisommersi nella neve. Il quinto fu trovato più
tardi, intontito ma ancora vivo. Sembrava tutto a posto quando si
sparse la voce che ne mancava uno all'appello. La massa nevosa aveva
inghiottito gli alpini così velocemente che non c'era stato il tempo
di sciogliere il cordino da valanga. Nessuna traccia dello scomparso.
Ci mettemmo a scavare furiosamente. Un sergente scavava a mani nude
piangendo ed imprecando. Lavorammo come dannati ma del disperso non
c'era alcuna traccia. Poi finalmente una voce gridò. Era passata
poco più di mezz'ora ma a noi era sembrato un tempo infinito. Mi
precipitai ai piedi di un albero spezzato e dalla neve vidi
spuntare un piede. Scavammo delicatamente per liberare il corpo ma
capii subito che non c'era più niente da fare. Il cuore aveva
ceduto. Guardavo quegli occhi spalancati in un urlo silenzioso di
terrore. Non avrei mai immaginato che la morte avesse il volto di un
ragazzo di vent'anni come me.
- Dai pastiglia. Fa
qualcosa!- Urlò disperato un amico.
Cosa potevo fare. Troppo
tardi. Ero una statua di ghiaccio senza più pensieri.
Un ragazzo si gettò sul
corpo esanime quasi volesse riscaldarlo. Mi staccai dal gruppo e
cominciai a risalire la ripida scarpata per andare non so dove. Vidi
che infilavano il cadavere nel mio sacco a pelo; vidi volare per aria
le mie calze di lana che mia madre mi aveva mandato e che avevo messo
ad asciugare nel sacco a pelo; vidi la mia inutile barella buttata da
una parte; vidi lo zainetto aperto e i medicinali sparsi sulla neve.
Non c'era nulla che poteva servire. Mi ritrovai seduto sopra una
roccia a piangere. Come un bambino.
Poi qualcuno mi scosse con
delicatezza, mi mise una sigaretta tra le labbra e disse.
- Vieni, c'è del lavoro per te.-
- Vieni, c'è del lavoro per te.-
Raccolsi il mio zainetto e
i medicinali. Il sergente ed alcuni alpini che avevano scavato a
mani nude avevano un principio di congelamento.
Il posto si popolò di
gente; arrivarono squadre di soccorso, sciatori, il gatto delle nevi.
Un elicottero partito da Bolzano sorvolava la zona. Giunse anche un
medico, un sottotenente di cavalleria che conoscevo perchè era amico
del mio sottotenente medico. Gli feci un breve resoconto
dell'accaduto. Lui mi disse:
- Tranquillo, hai fatto il
massimo possibile.- Poi decise di fare un'iniezione al cuore al
povero ragazzo. Più che altro per uno scrupolo. Erano trascorse
ormai due ore dalla morte. Seppi in seguito che il ragazzo era morto
subito. Gli era letteralmente scoppiato il cuore. La fatica, la
paura. Chissà.
Fummo radunati, o meglio,
ammucchiati in uno spiazzo. Una confusione totale, ufficiali di
tutti i gradi erano spuntati dal nulla, ordini che andavano e
venivano. Nessuno sapeva cosa fare mentre un centinaio di ragazzi di
vent'anni muti, sporchi, affamati e instupiditi aspettavano qualcosa.
Ci fu una vibrazione sotto
i nostri piedi, la massa di neve si mosse leggermente ma rimase al
suo posto. Caricammo i nostri zaini sui gatti delle nevi e, alla
spicciolata, cominciammo a scendere a valle. L'elicottero continua a
volare in tondo; forse volevano contarci dall'alto, certo che
sembravamo tutto fuorchè un reparto dell'esercito italiano. A pochi
chilometri da Santa Caterina incrociammo un gruppo di ragazze che
sciavano lungo la pista.
- Bella! Me lo dai un
passaggio?- Giannini ci stava provando
- Se riesci a saltare
sopra i miei sci.- Rispose una ridendo.
Le guardammo in silenzio
fino a quando l'ultima sparì dietro la curva.
- Non so cosa ne pensate
voi ma quello era un Culo con la C maiuscola.- Sospirò
Giannini. Si tornava a
vivere.
Nota dell'autore
Il comando militare aveva
dato l'ordine di sospendere tutte le esercitazioni invernali per le
pessime condizioni ambientali. Noi non ricevemmo mai l'ordine.
I giornali e la
televisione diedero la notizia che un reparto di alpini era stato
dato per disperso sulle montagne delle Alpi a causa di una tormenta.
La notizia provocò collassi e malesseri vari in tutte le mamme
(compresa la mia).
Il soldato morto, dopo una
breve cerimonia nella chiesa di Santa Caterina, fu caricato su un
camion e con la scorta di dieci commilitoni, riportato al suo paese.
Il finto malato fu
congedato dopo un mese. I medici gli avevano riscontrato un grave
difetto cardiaco non rilevato durante la visita di leva.
Probabilmente stare al caldo gli aveva salvato la vita. Il capitano
Valeri, nei mesi successivi, ogni volta che doveva spostarsi con la
sua compagnia, non richiedeva un infermiere qualunque. Voleva il
“sardo”. La mia solita fortuna.
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