A Brescia non c'è la nebbia. Cap. 8

Capitolo 8    Picnic sul monte Maddalena

Quel lunedì dell’Angelo del 1965 fu un giorno diverso da sempre, importante per gli effetti ed anche unico. Ma andiamo con ordine: a Leo non erano mai interessate le feste comandate con tutti gli assurdi e stupidi riti collettivi, anzi le odiava profondamente, figuriamoci poi la pasquetta ma aveva bisogno di staccare almeno un giorno, di liberare la mente dalla fatica.

La bocciatura dell’anno scolastico precedente aveva fatto saltare in aria il mondo, tutto il suo mondo. E’ vero, il suo rendimento scolastico non era stato tra i più brillanti, ma la sentenza dei professori, obbligati sicuramente dal preside, universalmente noto come “ La Carogna” per la sua abitudine di interferire, sempre negativamente, sul loro giudizio, era stata ingiusta e immotivata.
La condotta, buona o cattiva, era il vangelo del Signor Preside, pronunciato al maiuscolo da docenti e personale della scuola. Erano molti gli studenti caduti sotto la mannaia di un sistema ferocemente selettivo ma in questi casi il mal comune non lenisce il dolore. 
Leo era quasi impazzito, si era messo a piangere per la disperazione e lui non piangeva mai.
Ancora non aveva maturato l’attenzione critica verso le strutture della società, la vita sembrava  un gioco e un sano egoismo era una forma di difesa dalle brutture quotidiane. I suoi giorni erano stati come un giro di ballo, con la protezione della famiglia ad assorbire i colpi bassi. 
Ma una bocciatura, ritenuta sbagliata, era un fatto strettamente personale che non poteva essere condivisa neanche volendolo. 
Nella crescita di tanti giovani hanno fatto più danni bocciature ingiustificate, spesso frutto di superficialità e di incompetenza. che l’alcol e la droga.
Leo non aveva ancora sentito parlare di un insegnante, il prete di una sconosciuta scuola di Barbiana, un certo don Milani che sosteneva che la scuola italiana è come un ospedale che cura i sani e manda via i malati. E per sostenere le sue critiche al sistema era finito sotto processo e sospeso dalla chiesa. La scuola italiana è sempre stata classista fin dalle elementari. Doveva selezionare la classe dirigente con continuità, scegliendola dalla classe al potere.
La classe operaia, i contadini dovevano fornire solo la manovalanza, le braccia per faticare. 
Si, c’era anche allora qualcuno che per meriti personali, riusciva ad emergere nella società aldilà della provenienza sociale ma non era certo la scuola degli anni 60 che poteva formare nuovi dirigenti e tecnici specializzati attingendo da vasti strati della popolazione. 
Solo nella seconda metà degli anni 60, con le lotte operaie, con le rivolte studentesche il sistema sarebbe saltato e sarebbero cominciate le prime vere riforme per far diventare la scuola per pochi in scuola per tutti. Salvo poi, quando con continue riforme mascherate da conquiste sociali, la classe dominante ha ripreso il controllo della società ed ha continuato a mantenere i propri privilegi per conservare le cose come stanno. 
Un solo esempio, quanto costa oggi al cittadino italiano la cosiddetta scuola per tutti? Negli anni 60 un modesto impiegato come il signor Raffaello Sanna era in grado di mantenere due figli alle scuole superiori. Oggi il costo di due figli alle scuole medie è quasi proibitivo.
Ragionamenti e temi che Leo avrebbe scoperto pochi anni dopo, in quel momento doveva trovare una soluzione alla sua tragedia personale. 
Quell’esperienza negativa era la conclusione di un ciclo, metteva fine ai suoi sogni da ragazzino, alle bambinate, alla vita presa come un gioco.
Fine partita, bisognava ricominciare con più realismo, diventare cinici e duri; se c’era una guerra da combattere allora bisognava prepararsi alla guerra. Amori, amicizie, valori, ideali, tutte stronzate. Qui se non sai lottare ti passano sopra come su un tappeto.
Così superate le fasi di delusione prima e di rabbia poi, Leo decise che quella era solo una battaglia persa, una delle tante ma la guerra era sempre aperta e lui doveva vincerla ad ogni costo.
Qualunque cosa gli fosse capitata nella vita, lui non era e non sarebbe mai stato un perdente. 
Con l’appoggio del padre decise di iscriversi ad una scuola privata per avere un metodo di studio e un controllo e di presentarsi come privatista all’esame di maturità. 
Cominciò per lui un periodo, quasi un anno, di studio e di fatica che non avrebbe mai ritenuto possibile. Cancellate feste, cinema, anche lo sport e pensare che era appena stato preso dal Brescia rugby, che allora giovava in serie A, per far parte della squadra giovanile.
Solo la patente, utile e necessaria che conseguì nel mese di febbraio, fu l’unica deroga a tante rinunce. Neanche Vittorio Alfieri, legandosi alla sedia per studiare, aveva osato tanto. 
Per il resto via tutto, anche gli amici. Per lui solo studio e studio come mai in vita sua. 
La mattina  a scuola e il pomeriggio, tutto il pomeriggio, sopra i libri. Spesso anche la notte.
All’epoca l’esame di maturità era uno spauracchio per tutti, anche gli studenti più bravi, i primi della classe tremavano al pensiero. Ci sono persone che hanno conseguito più di una laurea e superato esami quasi impossibili ma ricordano come un vero incubo solo l’esame di maturità.

Tra una cosa e l’altra l’esame poteva durare anche un mese se uno aveva la sfortuna di avere qualche interrogazione a fine luglio. Luglio è stato per moltissimi studenti il mese del terrore. 
La prima settimana era dedicata agli scritti. Ecco la sequenza.
Lunedì. Italiano
Martedì-Mercoledì. Latino: versione dal latino e versione dall’italiano.
Giovedì. Matematica (per lo scientifico)
Venerdì. Lingua straniera.
Sabato. Disegno.
La prima domenica dopo gli scritti era dedicata ad uno stato di coma profondo non solo dello spirito ma anche del fisico. Poi bisognava aspettare il calendario delle materie orali che in genere andavano a coppia come i carabinieri.
Italiano e latino; storia e filosofia; matematica e fisica; lingua straniera (letteratura); storia dell’arte; scienze naturali.
Non so come funzioni adesso ma posso garantire che anche l’ultimo dei maturandi aveva una preparazione che oggi se la sognano.

Tornando al nostro studente, incasinato tra un brano di Cicerone e i versi del Paradiso, la parte più noiosa e insopportabile della Divina Commedia, ogni tanto, faceva capolino nelle pause dello studio, il rimpianto per la dolcevita ormai perduta e l’accusa, rivolta a se stesso, di essere stato un perfetto idiota. D’accordo le colpe degli altri ma lui non era di sicuro innocente. Probabilmente questa capacità di autocritica compensava  gravi cadute di intelligenza, forse c’era la stoffa  per risalire la china e superare gli errori, dando il giusto valore a fatti e misfatti dell’esistenza. 
L’autoironia per mantenere un giusto equilibrio mentale, questa potrebbe essere  una ricetta per vivere e sopravvivere.

Quando un suo coetaneo, conosciuto durante gli allenamenti di rugby, lo chiamò per proporgli una gita sul monte Maddalena, dopo qualche tentennamento, accettò. Lo convinse una frase dell’amico.
-Dai, in cima ci sono le ragazze così.- Ah, le donne! Eterna tentazione.
Il monte Maddalena (874 metri di altezza) è una collina che si innalza a ridosso di Brescia verso nord-est, una specie di sentinella che sembra sorvegliare e controllare la città. Una strada panoramica collegava (e collega) la cima e, fino agli anni 70, c’era una filovia che da viale Bornata portava direttamente alla sommità. Ma il piacere era salire a piedi partendo da uno dei tanti sentieri che iniziavano nelle frazioni e nei comuni limitrofi. 
La prima  metà del monte era ricca di abitazioni, ville di persone benestanti, poi salendo le case diradavano fino alla cima dove c’erano sola case vacanza, una specie di villaggio, e qualche bar.
Leo e l’amico decisero di partire dal sentiero che iniziava da S.Eufemia, un percorso di un paio d’ore attraversando località ricche di orti, vigneti e alberi da frutto. I due si ritrovarono all’appuntamento alle otto del mattino, Leo si era fatto accompagnare in macchina dal padre.
L’aria era fresca, quasi frizzante, ma non era fredda come capitava spesso a quell’ora, il cielo era limpido e trasparente come raramente si vedeva in quel periodo. Un inverno lungo e nebbioso aveva intristito le giornate già dure di Leo e poi aveva fatto tanta neve, troppa. 
La neve è bella in montagna, in un paesaggio sempre natalizio, ma in città si trasforma  subito in fanghiglia sporca e scura. Peggio quando gela per il troppo freddo con lastre di ghiaccio nascoste sotto la neve.
Ma quel giorno di aprile la città s’era vestita di colori, le feste pasquali che cadevano a primavera inoltrata, avevano trovato giornate incredibili a licenziare l’inverno.
Anche il cielo aveva nuove sfumature d’azzurro, a Leo  ricordavano il cielo e il mare di Sardegna, un miracolo che sembrava incredibile in una città che d’estate si scioglie nel caldo mentre d’inverno si nasconde dentro una nebbia così fitta che il cielo non esiste più. 
Ma quella mattina di fine aprile tutto sembrava bello e felice intorno alla città e sopra la montagna.
Chi ha detto che a Brescia c’è sempre la nebbia  ha solo sbagliato giornata. 
Non è da tutti che Brescia si fa scoprire, come una donna desiderata e desiderabile si mostra poco a poco e solo a chi vuole lei.
La camminata iniziò insieme ad altre persone che avevano avuto la stessa idea. Strada facendo si scambiavano parole in allegria con gente sconosciuta, si creavano nuove amicizie. Attorno ai cinquecento metri d’altezza c’era un avvallamento e si fece una pausa, il tanto per riprendere fiato, mangiare un panino (la mamma gli aveva preparato da mangiare per tre-quattro persone), bere un sorso d’acqua, poi si riprese a salire.
Arrivati in cima alla collina trovarono che era già piena di gente con “tavoli” apparecchiati sull’erba.
Leo e l’amico si infilarono in un grosso gruppo di ragazzi e ragazze pieni di chitarre e di risate. Furono accettati senza problemi perché più si è e maggiore è il casino. 
Per Leo fu una giornata come non gli capitava da tempo. Per qualche ora svanirono pensieri,  preoccupazioni e paure; una sensazione di serenità che non provava da molto. Pensò che, per la prima volta, riusciva a capire Giacomo Leopardi  e la sua “quiete dopo la tempesta.”
E poi c’era Floriana: guanciotte piene, larga di fianchi e seno provocante. Non era bellissima  ma aveva una dolcezza e un sorriso da sciogliere i ghiacciai delle Alpi. La sua rumorosa risata riempiva l’aria come campane a festa. Lo aveva adocchiato subito e si era incollata a lui peggio di un francobollo. E parlava, parlava, Dio quanto parlava ma a Leo stava bene, tanto ascoltava solo a sprazzi quel fiume di parole che lo stava inondando. Era da tempo che non si sentiva così bene e quella ragazza, esagerata in tutto, era la medicina giusta per il suo malumore.
Il tardo pomeriggio si ritrovarono soli, rientrando alla fine della gita, mano nella mano e ridendo e giocando come due bambini felici. Poi si fermarono alla fine del sentiero, la città era dietro loro mentre le prime ombre della sera cominciavano scacciare il giorno. Fu come un primo bacio, nuovo e incredibilmente timido. Leo era da molto tempo che non baciava una ragazza, si era dimenticato il sapore e il piacere di quelle esperienze ed ora, quella ragazza un po’goffa e buffa gli stava regalando emozioni dimenticate e un piccolo gioco d’amore. Fu lei a cominciare la storia, lui accettò quasi controvoglia, per stanchezza, per solitudine.
-Ci vediamo sabato.-
Floriana studiava dattilografia in una scuola privata nella zona di porta Trento, a mezzogiorno finiva le lezioni. Leo l'aspettava per fare due passi insieme fino alla fermata del tram che lei prendeva per rientrare a casa, in periferia, nel quartiere di Mompiano. Si, poteva staccare qualche ora dalla monotonia dello studio e stare insieme quella ragazza così diversa da lui.
L’incontro del sabato fu troppo veloce ma sufficiente per fissare un appuntamento vero. Alle quattro, davanti alla scuola e lui aveva anche la macchina che il padre, generosamente, gli aveva prestato. Alla mamma  che si era opposta perché doveva studiare (non aveva ancora digerito la bocciatura e il costo supplementare della scuola privata) il padre aveva replicato:
-E dagli qualche ora di tregua.-
La meta non poteva essere che il Castello coi suoi viali nascosti e i suoi angoli bui.  Il viaggio in macchina fu molto breve, poche centinaia di metri ma finalmente Leo entrò in una dimensione nuova. Fare l’amore dentro una Prinz non è il massimo della comodità, peggio è solo la Cinquecento con quel pomello del cambio che si infila dappertutto, ma con qualche fatica, qualche ahi e molte risate, Leo riuscì ad arrivare vincitore alla fine della piacevole battaglia.
Nella settimana seguente anche gli studi gli sembrarono più leggeri; la fisica, sua bestia nera, si mostrò  più comprensibile del solito ma era solo euforia. 
Il sabato dopo, il rapporto fu più tranquillo, meno acrobazie e più tenerezza e su questo aspetto della loro giovane relazione Leo cominciò a riflettere. Quella notte non riuscì a prendere sonno per le nuove emozioni e per tutto quello che stava scoprendo dell’amore e sull’amore e che non aveva mai provato prima; pensieri inconsueti che fuggivano dalla mente.
Che Floriana fosse innamorata di lui lo avrebbe capito anche un bambino, era un innamoramento a mille ma lui cosa provava per quella ragazza a parte l’attrazione fisica? E poi c’era tutta quell’allegria e la gioia di vivere contro la  noia accumulata nel corso dei mesi passati, forse anche anni. 
Ecco la parola noia era quella giusta per analizzare i suoi sentimenti. Da tempo aveva deciso di evitare relazioni serie o perlomeno lunghe; meglio storie mordi e fuggi se capitava l’occasione, altrimenti niente. Non è scritto da nessuna parte che a quell’età bisogna avere una ragazza fissa, anzi si sta meglio senza.
Floriana era solo un incidente di percorso, piacevole certo ma niente di più, non poteva essere diversamente. Lei era apparsa nel momento sbagliato della vita di Leo, in una fase difficile della sua maturazione quando, per le delusioni subite, la componente egoistica aveva preso il sopravvento sulla sua naturale disponibilità verso gli altri. Troppe ferite ancora fresche per guardare il resto del mondo con benevolenza, nessuna empatia. C’era troppo rancore nel suo cuore, Leo si era incattivito e aveva scelto di diventare freddo ed indifferente. Contava lui e solo lui. Ma in fondo, molto in fondo c’era sempre una vocina che lo disturbava, un residuo di coscienza che metteva in discussione le sue decisioni.
Leo invidiava quelli che sapevano vivere tranquilli e fare il male fregandosene di tutto e di tutti; anche lui avrebbe voluto essere uno stronzo contento, senza sensi di colpa a rovinargli l' appetito e l’umore. Invece niente, quando i suoi comportamenti erano contrari ai principi, ai valori che gli avevano insegnato, c’era un giudice spietato, in qualche parte dentro di lui, che lo condannava senza attenuanti. Non c’erano scuse, ragionamenti in difesa che riuscivano ad attenuare la sensazione di malessere che lo metteva in crisi mentalmente e fisicamente. Di tutta questa guerra, fuori non si vedeva niente. Né famiglia, né amici avevano sentore delle sue difficoltà. Probabilmente non interessava a nessuno. Come sempre, doveva risolvere da solo i suoi problemi.
Ma Floriana? Poteva far del male ad una ragazza così innocente, ad una donna che lo amava davvero, senza chiedere niente in cambio, senza sapere niente di lui, senza giudicarlo. Lei lo amava così, con un sorriso di complicità, con l’allegria che illuminava i suoi grandi occhi scuri col suo essere così eccessiva come il fragore di un temporale estivo. Una donna innamorata è uno spettacolo della natura, questo Leo riusciva a capirlo, un paesaggio da ammirare. 
Ferirla o peggio era come distruggere un fiore appena sbocciato, un delitto imperdonabile.
Fu una settimana difficile, anche i suoi studi rischiavano di risentire del suo stato d’animo;  la decisione presa fu definitiva  e senza ripensamenti. Doveva lasciarla, sparire per sempre, in fondo non era difficile. Floriana non sapeva quasi nulla della sua vita, neppure l’indirizzo di casa o il numero di telefono e Brescia era una città abbastanza grande per nascondersi se uno voleva nascondersi. Furono giorni e notti che non finivano mai con la tentazione continua di recedere dalla sua decisione. Leo trovava mille alibi, faceva mille ragionamenti in sua difesa, elucubrazioni pseudofilosofiche e analisi psicologiche e a antropologiche. Tutte stronzate.
Era sempre stato bravo con le parole e stava diventando sempre più abile; se fosse stato un avvocato avrebbe convinto tutti, giudici, giuria e pubblico delle sue ragioni. Ma solo lui sapeva la verità, l’unica verità: che era un gran bastardo.
Quel sabato a mezzogiorno, Floriana lo aspettò invano.

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