di Leo Spanu
Salvatore Sale
Salvatore Sale era nativo
di Gavoi ma da anni risiedeva a Sorso dove si era sposato con Maria Tilocca e
gestiva un'avviata attività di scuola guida. Come capita spesso alle persone
non proprio alte, era un iperattivo. Io l 'avevo conosciuto quando era entrato
come dirigente nella nostra società di atletica leggera. Aveva assunto subito
il ruolo di cacciatore di fondi per rallegrare le nostre magre finanze. Grazie
a lui, abbiamo ottenuto l' unica sponsorizzazione della nostra storia. Il
famoso avvocato Piras, suo compaesano nonchè presidente della Sardaleasing non
aveva fatto una piega alla richiesta di Salvatore. Bastava la parola. Mi sono
sempre chiesto come dev' essere stato l' incontro tra i due: Salvatore, un
affarino continuamente in movimento come agitato dalla corrente elettrica,
l'avvocato Piras, una montagna d'uomo, lento e pacato come un elefante vecchio
e saggio.
La Sardegna fu invasa da
un centinaio di ragazzi vestiti di tute giallo canarino. Ci vedevano da lontano
quando arrivavamo sui campi di gara attirando la simpatia della gente e nugoli
di moscerini.
Salvatore aveva seri
problemi di cuore, era stato operato e i medici gli avevano ordinato una vita
calma e rilassata. Più facile fermare un torrente in piena. Salvatore era la
versione umana del moto perpetuo, non aveva tempo per queste stronzate. La
Morte lo prese a tradimento. Ma non vorrei trovarmi nei panni della Signora
della Falce. Credo che Salvatore la stia cercando da qualche parte nell'aldilà
per spiegarle a modo suo, da buon nuorese, la sua opinione sull' increscioso fatto.
Perchè lui aveva ancora
tante cose da fare.
Benevento
A Benevento sono andato per tre anni di seguito dal 1996 al 1998. La prima volta con i miei atleti del CCRS Sorso, le altre due con le ragazze prestate all'atletica Porto Torres. Benevento mi sembra una città che ha perduto l'anima. Non sono riuscito a fotografare l'arco di Traiano.
Pagine della memoria
L' anno della nostra formazione, finimmo in un albergo fuori città, appiccicato ad una collina come un polpo allo scoglio. Aveva un bel nome, che non ricordo, che faceva pensare alle delizie del paradiso di Allah. Si presentava anche bene. Una specie di torre multicolore di un numero imprecisato di piani e piante rampicanti come i giardini pensili di Babilonia.
Una volta dentro l'inferno, o meglio il caos, come nella torre di Babele. Venne subito l' ora della cena, dopo un viaggio durato un giorno. Piatto unico: una salsiccia lunga un chilometro e sottile come una matita che doveva sfamare circa duecento persone (c' erano altre formazioni sfortunate come noi). Dopo una accanita trattativa col proprietario in cravatta reggimentale e sorriso d' ordinanza, ottenemmo in alternativa una pizza ma solo per pochi eletti dal Signore.
Poi si spense la luce. I più affamati rubarono la salsiccia-stecchino al loro vicino di piatto e rimasero impuniti a causa del buio. Io avevo ordinato una pizza che sto ancora aspettando. Quando gli ululati degli affamati atleti raggiunsero Cartagine, Annibale decise di attaccare Roma.
Dalla cucina provenivano urla e rumori strani di ferraglia. Insieme a pochi coraggiosi decisi di andare a controllare, a lume di candela, se erano arrivati i carri armati. La cucina, ultramoderna e tutto acciaio lucente, sembrava devastata dal terremoto (non per niente eravamo ai confini dell' Irpinia terra di scosse telluriche e di caciocavalli). Sedute per terra due donne piuttosto in carne, in camice bianco ospedale e faccia da infermiera sadica, si stavano dividendo le pentole e le stoviglie. Il cuoco era fuggito oltremare, in esilio volontario, portandosi dietro una padella per la frittata di cipolle, la fotografia delle “povera mamma” e un cane pechinese.
Il proprietario dell' albergo urlò nel buio, con un megafono, di stare calmi che tutto era a posto. Fu investito da una valanga di fischi e di insulti. Qualcuno fece delle considerazioni maligne sulle attività private della madre e della sorella.
Anche l' ONU decise che tutto era a posto ma loro sono abituati a dire stronzate. Miracolosamente tornò la luce. Chi aveva mangiato (neanche il 50 % dei presenti) decise di festeggiare l' avvenimento mentre gli altri si sparsero per la collina alla ricerca di un negozio aperto per comprare un panino avanzato, una brioche, delle gomme americane anche masticate, qualunque cosa potesse azzittire la fame urlante. Niente da fare, tutto chiuso.
La città brillava di luci in fondo alla valle. C' era vita e colore. Noi invece prigionieri nel castello di Dracula.
La mia squadra maschile fece amicizia con una squadra femminile siciliana.
L' incontro tra le due isole gemelle fece accendere l'Etna e tutti i vulcani del Mediterraneo.
Ai ragazzi sardi gli ormoni salirono a mille.
Un mio atleta, sedicente musicista, salì su un palco improvvisato in fondo alla sala da pranzo, si impossessò di una chitarra e intonò una canzone che non sono riuscito a riconoscere. Due ragazze siciliane se lo mangiarono con gli occhi. Cantava come un cane investito da un TIR ma era bello. Tutti gli altri si lanciarono in danze selvagge da far crepare d' invidia le tribù dei Mau Mau e le discoteche di Rimini. Spaventato, mi limitai a gridare:
- Ragazzi, pomiciate con decenza.-
Poi partì di nuovo la luce. A fianco all'albergo c' era un ristorante (che faceva parte dello stesso complesso) dove da dodici ore festeggiavano un matrimonio. La notizia riaprì il cuore alla speranza degli affamati e degli sfigati che tanto le donne non li cagano mai.
- Si mangia!-
Una pia illusione. Duecento invitati provenienti dall'Africa più affamata si erano preparati per una settimana all'evento. Non era rimasto più niente.
Un'orda di barbari ignari si riversò fuori con la scusa di fare gli auguri ai novelli sposi. Questi erano appena fuggiti anticipando di un giorno il viaggio di nozze. Infatti, quando un invitato, talmente ubriaco da fare schifo anche a Bacco, approfittando del buio, aveva cercato di togliere alla sposa, oltre alla giarrettiera anche le mutande, c' era stata una vibrata protesta dei familiari della vittima e una conseguente fuga generale perchè nel buio, calci e pugni non facevano differenza tra colpevoli e innocenti.
Qualcuno si portò via tutte le bomboniere, anche quelle vuote perchè altri s' erano
già rubati i confetti; le donne s'impossessarono dei fiori che decoravano la sala per
portarli alla Madonna di Pompei.
Fu come un segnale di via in una gara di Formula Uno.
Chi rubò una sedia, chi le posate, chi le tovaglie. Quattro ragazzotti stavano sudando intorno ad un juke-box che non voleva entrare nella macchina. I quadri di padre Pio furono tra i più ricercati.
Due gentili signore si stavano accapigliando per uno specchio con cornice in gesso dorato. La lotta finì quando ad una delle duellanti uscì dalla scollatura una tetta gigantesca che fulminò due dei miei ragazzi e li lasciò in trance per mezz'ora. Invano i camerieri cercavano di mettere ordine in quella bolgia infernale.
Infine si arresero. Svuotarono il frigorifero e se ne andarono a casa. Per noi, arrivati
troppo tardi, non era rimasto niente, neanche le candele.
La proprietaria del ristorante era seduta sul bordo del muretto in pietra grezza che si affacciava su un precipizio. Non piangeva neppure.
Sembrava la Madonna dei Sette Dolori a cui avevano annunciato l'arrivo dell'Ottavo.
La notte incombeva su di noi come un uccello rapace in cerca di preda.
Quali altri orrori ci attendevano ? Tornò ancora una volta la luce. Ritrovai il mio piglio di condottiero di armate Brancaleone e spedii in camera loro tutti i ragazzi, compresi quelli delle altre squadre.
Ci fu solo mezz'ora di pace. A Giacomo Marras si allagò la camera per primo
(nel mio bagno l' acqua era un ricordo del passato) poi, in sequenza, gli altri gabinetti si ribellarono al loro triste destino.
Rivoli d' acqua scorrevano nei corridoi. Chi si era appena insaponato per la doccia, chi doveva sciacquarsi la bocca, chi era rimasto a metà bidè.
Salvatore Farru stava armeggiando intorno ad uno scaldabagno con funzioni solo decorative.
Nella piazza principale del paese (quella struttura alberghiera al decimo (?) piano
era stata ideata come un paese con stradine su piani diversi e camere che
si affacciavano all'interno) ci fu l' assemblea dei profughi.
Noi dirigenti decidemmo che non potevamo restare un' altra notte in quell'albergo;
la mattina saremmo fuggiti tutti con la scusa che una strana epidemia di caccarella
aveva colpito tutte le nonne degli atleti e dovevano rientrare a casa per fare le pulizie.
Ma intanto la notte doveva ancora passare. Molti ragazzi e ragazze si erano preparati per dormire. Alcune ragazze, in corte camicie da notte stavano facendo venire la bava alla bocca anche ai più tranquilli. Decidemmo di organizzare delle ronde per impedire baccanali, ratti delle Sabine e quant'altro di pecoreccio la storia di Roma aveva insegnato ai ragazzi.
Di qui non si passa, come gli eroi del Piave camminavamo su e giù per
i confini della Patria controllando che nessun lupo uscisse dalla sua tana a caccia
di pecorelle (molto disponibili peraltro). La luce andava e veniva a suo piacimento.
Quando infine giunse l' alba, noi adulti eravamo degli zombi. Senza mangiare,
senza dormire e qualcuno senza andare di corpo, perchè i bagni erano come il delta del Po dopo l'alluvione. Ma la castità era salva.
Quando i ragazzi si svegliarono, qualcuno disse allegramente:- Ci siamo veramente divertiti.-
Se il pensiero è un reato, allora mi sono guadagnato l'ergastolo.
Per la cronaca, gli
atleti erano: Danilo Cadeddu, Alessandro Denurchis, Paolo Loriga, Giovanni
Marras, Riccardo Mura, Daniele Piana, Roberto Salis, Aldo Scotto, Giampiero
Scotto, Gavino Solinas, Alessandro Spanu, Mario Tosatto, Daniele Vacca.
I tecnici: Salvatore
Farru, Giacomo Marras, Leo Spanu.
I
tecnici: Salvatore Faiacoarras, Leo Spanu
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