A Brescia non c'è la nebbia: Cap. 14


Capitolo 14°                    Marianne

La prima volta che la madre gli disse che aveva ghiaccio al posto del sangue, Leo quasi sorrise. Se aveva convinto anche sua madre voleva dire che la sua capacità di autocontrollo aveva raggiunto un buon livello. Naturalmente non era un complimento ma Leo riteneva che lasciarsi vincere dalle emozioni e dai sentimenti fosse una forma di debolezza. Non poteva certo mostrare  il fianco a ipotetici nemici  e aveva capito da tempo che le ferite più dolorose non sono quelle del corpo. Con la sensibilità tipica delle persone  introverse aveva sentito più che capito quanto male possano fare le parole ma ancor più i silenzi.  Erano poche, molto poche, le persone per le quali provava un affetto vero e in ogni caso non lo avrebbe mai fatto vedere.  Meglio sembrare una persona fredda e arida ma capace di difendersi dai colpi bassi della vita che essere una vittima sacrificale di quanti trattano gli altri come tappeti da sbattere. Del resto sapeva che le amicizie, tutte,  prima o poi  sarebbero  finite;  quel suo  vagabondare per città e città, con altre  scuole e altre persone,  con storie che avevano una scadenza stabilita, gli avevano insegnato che tutto, almeno nella sua vita, era precario e provvisorio per cui perché impegnarsi in relazioni, amori o amicizie, tutti avevano  i giorni contati. Ci sarebbe sempre stato un nuovo viaggio, una nuova città da scoprire, una nuova amicizia da inventare. Per l’amore invece c’era tempo anche perché i suoi “innamoramenti” erano solo cose minime, poco più di una forte simpatia, poco meno di una cotta. Poi conobbe Marianne.

Marianne aveva un anno in meno di Leo e frequentava la sezione C.  Lui non l’aveva mai notata a scuola fino a quando,  un pomeriggio, in una delle tante feste  in casa di qualcuno, aveva visto una ragazzina seduta in disparte, indifferente o quasi  a quanto avveniva intorno a lei. Si era avvicinato e l’aveva invitata a ballare, lei lo aveva fissato a lungo, almeno così gli era sembrato anche se in realtà si era trattato di pochi secondi, come se lo stesse pesando o misurando e, a esame concluso,  gli aveva sorriso e gli aveva detto semplicemente:

 -Io sono Marianne.-

-Mica ti ho chiesto come ti chiami.- pensò Leo-  mi bastava un si di risposta.- Però  strano nome, con quella e muta alla francese, e strana anche la ragazza. Cappelli e occhi scuri come se venisse dal sud, l’espressione imbronciata forse per via di quel labbro inferiore che sporgeva leggermente e un sorriso appena accennato come se sorridere fosse  una fatica. Leo ballò tutta la sera solo con lei, le altre ragazze presenti  erano diventate improvvisamente  prive di interesse. Quella notte Leo dormì poco o niente. Cosa l’aveva colpito al punto di pensare solo a lei;  conosceva  donne più brillanti di quella ragazzina di paese e forse anche più belle ma lui era rimasto stregato da quell’aria un po’ triste e distratta.

Nei giorni successivi si sentì come uno che stava maturando un raffreddore, i segnali erano molto chiari; scarsa voglia di uscire con gli amici, incapacità di concentrazione, pensieri che vagavano in giro per il mondo e tornavano sempre nei pressi di Marianne. Si, quello era un grosso raffreddore, con testa pesante e occhi lucidi,  c’era pure il rischio di  un’influenza con possibilità, se non curata subito, di diventare polmonite. Si, ma dove vendono le pastiglie contro gli innamoramenti perché  questa volta non c’era dubbio, quella era una cotta stratosferica.  Passò un mese di notte insonni e di tormenti, di maledizioni contro se stesso (dov’era finito il suo  vantato autocontrollo) ma anche di sogni rosa, salti nell’universo delle illusioni prima che Leo cedesse alla malattia,  si rassegnasse alla nuova  situazione e  si decidesse a chiedere a Marianne se voleva essere la sua ragazza. Cosa non facile perchè si vedevano solo il sabato pomeriggio, ma non sempre,  alla feste perché durante la settimana, a scuola, durante l’intervallo c’era solo il tempo di un saluto e poi Marianne preferiva stare con i compagni della sua classe. La risposta, imprevista e inaspettata, lo gelò:

-Mi dispiace ma ho già il ragazzo, al mio paese.-

-E dove accidente lo aveva nascosto se alle feste lei andava sempre da sola? - Quello fu l‘unico pensiero coerente di Leo per il resto il suo cervello diventò una mare agitato, agitatissimo con onde impazzite che si suicidavano sugli scogli. E quel che era peggio non riuscì a spiaccicare neanche una parola lui, che quando la timidezza non lo bloccava,  di parole ne aveva  un vocabolario. La sua faccia doveva  essere uno spettacolo, la delusione aveva inventato colori che neanche la tavolozza di un pittore: dal rosso vergogna  acceso dalla figuraccia al grigio quasi nero della sconfitta come quando l’umore finisce nelle scarpe. Quattro settimane di salite in paradiso e discese all’inferno, morivano davanti a un mi dispiace.

“A te dispiace. A me no invece. E’ come se mi avesse investito un treno.” Sempre pensieri che non riuscivano a diventare  parole. Marianne capì lo stato d’animo del ragazzo e cercò di consolarlo.

-Dai non fare così, possiamo essere amici. Mi piacerebbe molto se noi restassimo amici. Davvero.- Leo aveva solo quindici anni ma aveva già stabilito che non può esistere l’amicizia tra un uomo e una donna, uno dei due mente sapendo di mentire. E invece la loro “amicizia,  Leo preferiva virgolettarla, durò tre anni. L’unico commento alla sua storia, nel corso di tutto quel tempo, fu dell’amico Simone:

-Tu sei scemo.- Poi tornò ad occuparsi dei fatti suoi. La realtà è che aveva ragione Simone.

I due cominciarono a fare coppia fissa, andavano insieme a tutte le feste anzi  Leo andava a prenderla alla stazione dei pullman (Marianne abitava a Ponte San Marco) e poi la riaccompagnava all’ultimo pullman sempre prima che la festa finisse. A pensarci Leo non vide mai la fine di nessuna festa per tutti quegli anni,  era diventato una  specie di Cenerentola al maschile, c’era sempre una  continua fuga  naturalmente prima  di mezzanotte.  Peccato che non aveva niente da perdere, a parte  forse la dignità  e nessuna principessa azzurra  o di altro colore a inseguirlo nella notte. Non conobbe mai il presunto ragazzo di Marianne, forse non esisteva neppure,  era solo un fantasma  che disturbava i suoi sonni e i suoi sogni. In effetti non ci volle molto a scoprire che l’ipotetico ragazzo di Marianne era un invenzione,  solo una  strana forma di difesa. In effetti chi corteggerebbe una ragazza già impegnata. Oggi tutti ma  a quel tempo la corte ad una ragazza aveva delle regole che quasi tutti rispettavano. Regole che sarebbero saltate molto presto con le nuove mode tipo il lancio di reggiseno da parte delle ragazzine  inglesi ai componenti dei Beatles. Tempo dopo avrebbero lanciato anche le mutandine e sarebbe nato il sesso libero ma a sedici anni Leo era ancora una persona educata e conformista.

Ma aldilà di ogni considerazione  e fuori di ogni metafora o ironia restava il fatto che Leo era innamorato di Marianne, l’aveva capito subito che quella ragazza silenziosa era come la maga Circe o come le sirene di Ulisse;  gli aveva rubato qualcosa senza dargli niente in cambio. No, nel confronto con l’eroe omerico lui era un perdente. Quando ballavano durante i lenti, Leo la stringeva di più, lei lo lasciava fare, anzi spesso appoggiava la guancia al suo viso o sulla sua spalla come a cercare protezione. In quei momenti Leo pensava che forse qualcosa stava cambiando tra di loro, che forse nasceva una possibilità, che aveva qualche speranza, che dall’amicizia sarebbe nato anche l’amore. Ma quando provava a parlare, a chiedere, lei si irrigidiva, diventava una statua di pietra. Il suo silenzio era un no più penetrante di una lama che andava a scavare in una ferita sempre aperta. Allora Leo spariva per qualche tempo, si nascondeva a Marianne per qualche settimana, si malediceva per la sua stupidità ma poi tornava a cercarla. Marianne lo sapeva, se lo ritrovava alla stazione dei pullman ad aspettarla con quell’aria di cane bastonato. Gli faceva una carezza e un sorriso e il temporale nel cuore del ragazzo svaniva all’improvviso. Lei gli voleva bene davvero ma solo come amica e lui questa cosa mica riusciva a capirla.

Si certo, esistono molte forme d’amore ma tra un uomo e una donna l’amore platonico è sempre una fregatura,  almeno per il più debole della coppia perché non ci sono soluzioni.  Leo era e si sentiva prigioniero di una specie di maledizione,  eppure non era un ragazzo fragile e privo di risorse. Era anche simpatico quando non si nascondeva dietro la timidezza e il caratteraccio. C’era più di una ragazza disponibile, pronta ad accettare la sua corte. Qualche volta, durante le “separazioni” aveva pure cercato qualche avventuretta tanto per non lasciarsi vincere dal malumore. Storie da niente che finivano subito e che finivano col renderlo ancora più critico e cattivo verso se stesso.

-Ma perché non ti fai una ragazza per davvero  e lasci perdere quella stronza.- Gli diceva  Simone, l’unico a conoscenza dei veri sentimenti di Leo.

-Perché non te la fai tu una ragazza invece di rompere.-

-Perché io amo la libertà e non voglio nessuno che mi tenga al guinzaglio.-

-Marianne non mi tiene al guinzaglio.-

-Davvero? Bau, bau!- La discussione finiva regolarmente con la fuga di Simone inseguito da un Leo inferocito. Però Simone  aveva ragione: la vita correva quotidianamente con tutti i suoi riti ordinari poi, il sabato, arrivava lei la padrona e lui, da normale ragazzo, diventava accompagnatore ufficiale, guardia del corpo, ombra della sua ombra,  ombra del suo cane, come cantava Jacques Brel in  Ne me quitte pas.

Già, non mi lasciare, ma quando  se la storia non era mai cominciata. Invece tutto veniva sopportato in attesa d’amore, tutto poteva avere un senso, anche l’umiliazione per qualcosa in più di un semplice sorriso. Anche fingere amicizia. Un uomo che si illude è uno spettacolo triste, è come un attore solo sul palcoscenico,  in platea nessuno neppure per fischiare. Un uomo che aspetta amore è come uno che si perde nel deserto e cerca l’acqua. Non piove mai ma volte l’umidità della notte ti regala una goccia d’acqua sulle labbra, ti aiuta a sopravvivere e ti fa sperare di non morire. A quell’età il tempo ha molta fretta, i giorni e i mesi corrono così velocemente che, un mattino qualunque, uno si guarda allo specchio e si vede diverso, talmente diverso da domandarsi : 

-Ma dov’è finito il ragazzino di ieri sera.-

Marianne non era più la bambina imbronciata della prima volta, si era trasformata in una bella ragazza, elegante e sicura, una donna pronta ad affrontare il mondo con altri occhi ed altri pensieri. Leo invece dall’alto dei suoi 18 anni si sentiva sempre debole  e insicuro; doveva decidersi a cambiare, a dare un taglio ad una relazione che non esisteva e che non era mai esistita e che non aveva più senso. Affacciato al terrazzo della villa dove stavano facendo festa, guardava la città  illuminata. Dai Ronchi, di giorno, il panorama  delle case e dei tetti che arrivavano a perdersi  in fondo alla campagna era sempre uno spettacolo piacevole ma di notte, con  tutte quelle luci che disegnavano  solo profili di case e palazzi, sembrava l’immagine  di un Natale senza fine. Vista dall’alto, Brescia rassomigliava ad un ricamo. Una città per sognare. Marianne lo toccò sulla spalla. Come sempre doveva andare via prima della fine.

-Andiamo?-

Ormai neanche gli chiedeva più di accompagnarla, era diventata un’abitudine. Tutto era un’abitudine assurda, quella festa e tutte le altre prima, la scuola, gli amici, un amore che non era amore. Leo si staccò a fatica dal panorama che stava ammirando,  si girò e la guardò per la prima volta come se fosse un’estranea. Lei capì ma come sempre non disse niente. C’era sempre stato  qualcosa di misterioso nel suo sguardo,  come se sapesse vedere nel domani, un cattivo domani ma per chi? Leo aveva sempre preferito pensare che fosse solo tristezza anche se non ne vedeva e capiva la ragione.  Ma quella sera  Marianne scoprì qualcosa di nuovo, qualcosa che era morto nel cuore e negli occhi dell’amico, si girò e si allontanò. Leo  tornò a guardare la notte. Fu l’ultima volta che i due si videro e si parlarono. Anche la sua uscita dalla scuola contribuì alla definitiva separazione, qualche incontro molto occasionale, un cenno di saluto da lontano. Quella storia mai nata finiva così banalmente, nel silenzio, senza una parola.

Leo continuava ad amare quella donna incomprensibile, quel mistero che per tanto tempo aveva condizionato le sue emozioni. Un giorno avrebbe incontrato un’altra donna che avrebbe cancellato Marianne anche dalla memoria, ne era certo, ma adesso doveva rimettere insieme tutti i cocci di una storia sbagliata e riprendere la sua corsa. Per troppo tempo era rimasto ad aspettare che si realizzasse un sogno impossibile. C’era tutto un mondo da scoprire, persone da conoscere e tante altre ragazze da incontrare. Doveva portarsi dietro anche quel piccolo dolore ma col tempo si fa l’abitudine a tutto, alle vittorie come alle sconfitte anche se queste ultime non smettono mai di far male. Ma era giunta l’ora di mettere la parola fine.

-  Basta così .-

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