A Brescia non c'è la nebbia: Cap. 12

 

Capitolo 12               A Brescia non c’è  la nebbia

Brescia è una città che corre, un po’ come Milano ma ad una velocità maggiore e con un piccolo complesso di inferiorità. Infatti  se a Milano, durante il Risorgimento, hanno avuto le Cinque giornate  a Brescia non potevano essere che Dieci, il doppio; se a Milano hanno lo smog, nero come la vergogna, a Brescia hanno la nebbia, bianca come la purezza.

-Non c’è confronto: il candore dell’innocenza contro l’oscurità del male.- La frase era tipica di Maurizio e Simone aveva subito replicato:

-Questa non l’ho capita. Per caso questo cretino ha bevuto?-

- No, è così di suo.- Leo era sempre per la pace. La penosa discussione era avvenuta  una sera di marzo al rientro da una festa da ballo. La casa era quella di Elena, altra compagna di classe, che abitava in una mostruosità,  una specie di  grattacielo che il padre della ragazza, industriale di motoscafi di lusso, aveva costruito in una zona periferica. Poche villette con alte recinzioni, larghi viali poco luminosi e traffico minimo anche di giorno perché quella era una zona residenziale: niente negozi, niente artigiani, niente piccole attività produttive mascherate dentro le case. C’era solo nebbia e così fitta che non si vedeva la punta del naso e dopo un quarto d’ora di camminata alla cieca fu chiaro a tutti che avevano sbagliato strada.

-Ci siamo persi !- Urlò Maurizio poi si mise ad ululare. Luciano, l’inglese del gruppo, un po’ per la sua flemma e un po’ perché portava  l’ombrello anche quando non pioveva se ne uscì con uno dei suoi elaborati pensieri.

-Secondo me, dovremmo approfittare di questo nulla assoluto  per abbandonare questa specie di vil coyote al suo destino.-

-Bip, bip.- Fu l’epitaffio di Simone. L’ululato cessò di colpo e Maurizio, ritrovata la sua triste vena poetica cominciò il suo lamento.

-Abbandonato nello spazio vuoto da amici ingrati!  Ahi me lasso  ( -e lesso-  aggiunse Simone) e infelice, ferito da cotanto tradimento. Andate pure vili marrani, via dalla mia vista che io non debba più vedervi (- per forza  non si vede un cazzo- sempre Simone), lasciatemi al mio destino periglioso (-peri coso?- ancora Simone) lungo la strada che porta all’eternità .-

Pausa di riflessione.

-Secondo me, questa nebbia non porta da nessuna parte.- Commento di Leo.

-Quale nebbia? A Brescia non c’è mai la nebbia, solo persone grette e meschine come voi, vili marrani  con cui debbo accompagnarmi per mancanza di meglio,  vedono la nebbia dove invece c’è la luce (-ha ragione c’è un lampione la in fondo, lo vedo. – Simone dixit). Questo velo candido, intangibile (-e bagnato.- interruzione di Leo) è una vostra creazione, il frutto della cecità e della vostra ignoranza che maschera e nasconde il vostro cuore di uomini piccoli e meschini  (-adesso lo prendo a calci in culo.- Luciano).  Aprite gli occhi, aprite la mente, aprite il cuore alla verità perché voi nati non foste per viver come bruti ma per un errore dei vostri genitori.- Qui si interruppe il discorso di Maurizio  perché partirono schiaffi e sberle a ripetizione e si cominciava a vedere qualcosa come una casa, una strada, la città. La nebbia stava diradando e si poteva tornare ad una visione più comune.

-Però mi piace l’idea che la nebbia sia solo l’immaginazione dalla nostra fantasia, si…. - La considerazione di Leo finì di colpo perché le sberle di Maurizio si trasferirono su di lui. L’ironia e lo sberleffo erano una componente tipica di quel gruppo di amici, un modo come un altro per scherzare  e giocare e rendere più leggera la vita. Troppa gente seriosa e dallo sguardo cupo a scuola e fuori a predicare e augurare fulmini e saette. E rilassatevi ogni tanto!

Per fortuna che il sabato sera e, qualche volta, la domenica il mondo apparteneva agli studenti che quando si muovevano in massa facevano la fortuna e la sfortuna di alcuni  esercizi commerciali. Era una questione di moda;  partiva la voce che in una certa gelateria si gustavano gustose leccornie e tutti gli studenti si spostavano lì. Gelati d’ogni genere  d’estate e cioccolata calda con panna d’inverno; all’inizio di via Gramsci, in una gelateria  col nome di un paese tedesco altoatesino, Renon, un napoletano per un anno fece soldi a palate poi improvvisamente il locale passò di moda e il poveraccio si ritrovò a penzolare sulla porta in attesa di  clienti. Naturalmente aveva licenziato le tre o quattro commesse che aveva assunto durante il periodo dell’oro.

In fondo alla stessa strada c’era una pizzeria che per anni aveva vissuto serenamente e dignitosamente ma una volta stabilito, non si sa bene da chi, che facevano la miglior pizza di Brescia, bisognava far la fila per un’ora prima di trovare un tavolo libero. La clientela era talmente vasta che il proprietario, che  aveva dovuto assumere altro personale, faceva finta di non vedere le piccole truffe dei suoi giovani avventori; niente di grave, in verità, al massimo uno mangiava due pizze e ne pagava una. Anche Leo e amici avevano utilizzato, seppure raramente, questa forma di pagamento perché i soldi non bastavano mai  e poi quella stronzata di dover pagare per le ragazze quando loro avevano più soldi.

A proposito di soldi, proprio in via Gramsci, Leo aveva trovato  un portafoglio con circa 80.000 lire. Era scivolato dalla tasca posteriore dei pantaloni di un uomo che camminava davanti a lui. Leo lo aveva raccolto da terra, lo aveva aperto e aveva visto che quei soldi rappresentavano la busta paga mensile di un operaio. Senza pensarci  un secondo di più aveva raggiunto l’uomo, gli aveva consegnato il portafoglio ed era fuggito via, neanche il tempo di ascoltare un grazie. Nel suo futuro era molto improbabile il mestiere di ladro ed anche la possibilità di diventare ricco.

 La  “dolce vita” dei ragazzi si concentrava quasi tutta il sabato pomeriggio, poco  movimento le sere dei giorni feriali perché c’era da studiare, quasi inesistenti le domeniche, almeno d’inverno.  Nelle belle stagioni invece, la domenica poteva essere utilizzata per gite, quasi sempre al lago, qualche volta in montagna.

La famiglia di Andreina aveva una villetta alla periferia di Gardone val Trompia. Una dozzina di ragazzi e ragazze quindicenni, con l’autorizzazione dei genitori, fu caricata su un pullman  con molti panini imbottiti e molte più raccomandazioni. La mattinata corse veloce, anche mezza messa  perché qualcuno non voleva ”fare peccato mortale” saltando la funzione religiosa. Il pranzo fu un momento tragico, è vero che si erano portati dietro il tanto da sfamarsi per una settimana ma vuoi mettere il piacere di una bella spaghettata magari  al burro. Le ragazze avevano molte qualità e talenti ma nessuna confidenza con la cucina. Luciano disse che quegli spaghetti meritavano il primo premio nel campionato della pasta scotta. Grace che si era occupata del sale sbagliando clamorosamente la dose, si offese e non gli rivolse la parola per quasi un ora. Maurizio propose di costruire un quadro futurista tanto era facilissimo attaccarli al muro.  Andreina, la padrona di casa, rispose che al muro ci avrebbe attaccato lui. Naturalmente con gli spaghetti.

Leo si rifiutò anche solo di guardarli perché lui aveva il vomito facile. Gli spaghetti finirono nel bidone della spazzatura  e quanto erano buoni i panini! Nel pomeriggio i ragazzi decisero di fare una passeggiata tra i boschi. La giornata era calda, la primavera inoltrata aveva riempito di colori e profumi la montagna. Tutto bene fino a quando, nel ritorno, un corso d’acqua bloccò loro il passaggio: acqua fresca, anche troppo e buona da bere ma bisognava bagnarsi per attraversare il ruscello. Le ragazze all’unanimità decisero che mai si sarebbero tolte scarpe e calze. Peccato, una sbirciatina alle gambe sarebbe stata piacevole. Qualcuno, c’è sempre qualcuno idiota che non sa stare zitto, propose di prendere in braccio le ragazze e farle traghettare all’altro lato del torrente, tanto l’acqua era bassa. Naturalmente bisognava togliersi scarpe e calze per non bagnarle  mentre i pantaloni…

 -Va bene, ci pensiamo dopo.- Il salvataggio delle donne avvenne con grandi risate delle stesse, con il rischio di scivolare, nell’acqua gelida,  proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai, ma i pantaloni dei ragazzi furono regolarmente bagnati anche fino alle ginocchia.

-E adesso?- La domanda di Maurizio ebbe immediata risposta.

-Nessun problema, asciughiamo i pantaloni col ferro da stiro- Propose Andreina. Recuperati una serie di asciugamani per coprire mutande e gambe nude,  i ragazzi affidarono i loro pantaloni alle compagne. I primi furono fortunati perché il ferro non era ancora troppo caldo. E’ vero erano umidi e bagnati in qualche punto, perche a stirature le ragazze erano allo stesso livello degli spaghetti ma si potevano indossare. L’ultimo , Maurizio, invece si ritrovò una bella impronta di ferro da stiro sulla parte bassa della gamba destra.

-Adesso come la spiego questa cosa a mia madre?-

Naturalmente nella formazione e nell’educazione dei ragazzi c’era anche una componente culturale extrascolastica. Il Teatro Grande in corso Zanardelli e qualche volta anche il piccolo teatro vicino, in via Cavallotti. Leo ricordava sempre con molto piacere l’unica volta che aveva visto dal vivo Cesco Baseggio, un attore teatrale  veneto  (era nato a Treviso) che aveva conosciuto solo sugli schermi televisivi. La sua compagnia era specializzata nei testi di Carlo Goldoni e ormai l’artista era a fine carriera ma a lui piaceva il suono del dialetto veneziano; la memoria degli anni trascorsi a Treviso era sempre viva.

Ma gli spettacoli più importanti venivano rappresentati nel Teatro Grande. Quando Dario Fo e Franca Rame rappresentarono a Brescia Isabella , tre caravelle e un cacciaballe (1963) la fila davanti alla porta del loggione  iniziò alle 17.00, quattro ore prima dell’inizio dello spettacolo. Poi una lunga salita  di corsa nella stretta scala alla ricerca  del posto migliore, posto che cambiava a seconda dello spettacolo. Nel caso specifico la posizione preferita era quella che finiva proprio sopra il palco. La motivazione era dovuta a cause poco nobili,  anzi secondo i moralisti la più ignobile: la visione delle tette di Franca Rame che le esibiva con grande generosità. Grande attrice ma anche bellissima donna; la  commedia era esilarante ma anche gli occhi vogliono la loro parte. Leo trovava sempre posizioni di seconda fila e alla fine di ogni spettacolo si portava a casa un ricco torcicollo ma ne valeva sempre la pena. Quel teatro era magico. Lo avrebbe apprezzato ancor meglio qualche anno dopo, quando si sarebbe guadagnato qualche soldino facendo la comparsa durante la stagione lirica.

Fu in quell’epoca che conobbe Marta detta la Maga per la sua mania di fare la chiromante. L’opera da rappresentare per iniziare la stagione musicale era il Don Carlos di Giuseppe Verdi, mai sentita prima almeno per Leo che non era proprio un esperto di lirica. Una settimana di prove, una faticaccia boia: Leo faceva il sodato spagnolo, una meraviglia con quegli stivaloni di cuoio a metà coscia. Una volta era uscito in costume per comprarsi le sigarette, cinque minuti di pausa ma era stato fermato tante di quelle volte in corso Zanardelli che aveva rischiato di rientrare in ritardo. Leo con gli altri soldati spagnoli avevano due entrate in scena: la prima trasportando sulle spalle una croce per la condanna a morte del protagonista e poi di fianco alla croce dove lo stesso agonizza. Per la cronaca la bravura del regista  rese la scena tanto spettacolare che l’applauso del pubblico a scena aperta durò molti minuti. Leo con il suo elmo abbassato sugli occhi e l’alabarda, guardava nel buio della platea ma non riusciva a vedere niente, sentiva solo lo scrosciare degli applausi e sorrise al pensiero che almeno uno, magari piccolissimo, era anche per lui. Marta era una comparsa abituale del teatro, nel suo futuro c’era una convinta vocazione a diventare attrice.

-Prima o poi andrò a Roma, a Cinecittà.- Diceva a tutti, intanto faceva la popolana nel Don Carlos. Bella ragazza, capelli alla zingara e, per essere in parte, aveva la mania di leggere le carte a tutti un po’ per gioco un po’ perché lei ci credeva davvero. Leo per qualche giorno riuscì a resistere alle continue richieste di Marta. Trovava stupida ogni forma di superstizione e non era disposto a cedere all’ignoranza anche se l’esuberanza fisica della ragazza lo metteva in difficoltà, sempre addosso con quel seno prorompente che la scollatura dell’abito da popolana spagnola metteva ancor più in evidenza. La sera della prova generale, mentre aspettavano dietro le quinte Marta gli prese la mano e cominciò studiare con l’espressione di un critico che ha scoperto un nuovo artista. Un paio di minuti di silenzio mentre l’espressione del volto di Marta diventava sempre più seria.

-Allora cosa vedi ?- Chiese Leo.

-Non si vede bene, c’è poca luce. Vediamo domani. – Poi Marta gli lasciò la mano. Non ci furono ulteriori sedute e il giorno dopo, alla richiesta ironica di Leo di spiegazioni, Marta non rispose. Si limitò a fargli una carezza e a regalargli un sorriso un po’ triste.

-Strana ragazza.- Pensò Leo, chissà perché non aveva voluto rivelargli nulla del futuro magari, in un’altra vita, avrebbe fatto un pensierino per un breve incontro con la magia anzi meglio con la maga.

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