A Brescia non c'è la nebbia: Cap. 11°
Capitolo 11° Il Castello
Il Castello
non è una fortezza medievale arroccata sul colle Cidneo, a ridosso del centro
storico. Per gli altri forse ma per i bresciani il Castello è lo spirito della
città, come una parte del corpo, tra il
cuore e il cervello, è un parente che viene dopo la madre, il padre e i
fratelli, un amico che ti accoglie in ogni stagione della vita. Sistemato al
centro della città è un insieme di boschi, di viali alberati, di giardini e di
sentieri dove perdersi senza dover fuggire lontano. Perché Brescia è sempre là
sotto, coi suoi rumori e la sua vita frenetica. Ma basta un minuto per liberarsi da tutto, immersi nel verde, seduti
su una panchina e sognare di essere altrove.
Il Castello
è anche un insieme di costruzioni antiche, di varie epoche con torri e ponti
levatoi e luoghi segreti e gallerie. Per
Leo che veniva da una città chiusa da mura medievali scoprire che qui le mura
“difendevano “ solo una collina era stata una sorpresa divertente, l’ennesima
prova di quanto sia vario e ricco di
curiosità il mondo. Questa era la parte positiva del suo continuo girare per
l’Italia. Posti sempre nuovi e diversi, non si finisce mai di imparare.
Nel Castello ci sono musei con la storia della città e giardini dove
passeggiare mano nella mano giovani e meno giovani; in un piazzale c’è pure una
antica locomotiva a vapore. Il Castello
è la memoria dei bresciani con tutte le sue storie e gli amori nati e svaniti
nelle sue ombre. Già gli amori! Chissà perché Leo non aveva mai portato lassù
Marianne, i loro incontri erano sempre avvenuti in altri luoghi. Magari, se l’avesse portata lassù. No, Marianne era la sua parte oscura, un nodo che
non riusciva a sciogliere e neppure a spezzare.
Si poteva
accedere alla cima del colle attraverso due strade principali: da San Faustino
salendo per la via del Castello che arrivava fino alla chiesa di San Pietro in
Oliveto, oppure partendo da piazza Arnaldo da Brescia per via Avogadro che, dopo un lungo rettilineo, con una serie di
tornanti si collegava a via del Castello. Naturalmente c’erano altri accessi
partendo dal centro. Dalla zona vicino a
piazza della Loggia si saliva per
la contrada di Sant’Urbano che, attraverso case e
giardini arrampicati sui fianchi del colle, in pochi minuti portava in cima.
Nel 1951 era stata aperta una galleria (galleria Tito Speri) sotto il colle
che collegava via Mazzini a via Pusterla. Per Leo quella era un’ottima
scorciatoia per rientrare a casa dal centro anche se camminare dentro un
budello illuminato era noioso e,
psicologicamente, più lungo. Ma alla fine della galleria cominciavano i
giardini della Pusterla, il luogo, a Brescia, più amato da Leo.
Via Pusterla, diventava poi via Turati e correva parallela a via Avogadro fino a piazza Arnaldo; all’inizio il terreno, in pendenza, era una area coltivata a vigna: un vigneto anche se piccolo dentro una città non è cosa abituale. Poi diventava pianeggiante e si trasformava in un giardino lungo e stretto ricco di alberi e di panchine. A proposito di panchine ce n’era una, quasi di fronte alla casa di cura, che Leo utilizzava e che utilizzò per molti anni come pensatoio maggiore. Aveva il suo pensatoio privato a casa, lo sgabuzzino, ma è difficile concentrarsi con una famiglia che rompe in continuazione. Invece in quel giardino poco frequentato, Leo poteva dare libero corso ai suoi pensieri. Rivolto alla strada con il suo flusso ininterrotto di macchine sempre più veloci e di gente che aveva fretta altrimenti, quando era di malumore, di schiena, faccia al muro neanche lo attendesse una fucilazione.
In
quell’angolo nascosto della città Leo faceva le sue sedute di autoanalisi. Non
era molto soddisfatto di se stesso. Specie per quanto riguardava il suo
profitto scolastico. Preferiva leggere un buon libro di narrativa piuttosto che
perdere tempo con testi noiosi e spesso scritti male. Un romanzo era molto più
divertente di certe lezioni. Solo molti anni dopo il liceo, Leo aveva ripreso
in mano I promessi sposi di Alessandro
Manzoni e lo aveva trovato un gran bel romanzo. Perché a scuola invece lo
aveva considerato un mattone. Strana la scuola italiana dell’epoca che invece
di formare culturalmente gli studenti sembrava impegnata in una gara di
decimazione; vinceva chi ne eliminava di più. All’epoca Leo si poneva ancora
domande su ciò che era giusto o meno. Uno dei trucchi più utilizzati da alcuni
insegnanti per fregare gli allievi era
quello di reinterrogare un ragazzo il
giorno dopo, o massimo due, nella stessa materia. Nove casi su dieci trovavano
lo studente impreparato. Tutti o quasi
tendevano a mollare una materia per qualche giorno dopo un’interrogazione. Che
senso aveva un simile comportamento. Si andava a scuola per imparare o per
essere decimati? E per cosa poi? Per
andare verso il basso a far parte del mondo dei vinti? A parte l’umiliazione
gratuita era giusto quel modo di fare?
Leo si
poneva molte domande sulla sua vita e
sul suo piccolo mondo. Nessuna risposta veniva dalle sue riflessioni, doveva
continuare a crescere e conoscere per capire. Così pensava allora. Col tempo avrebbe scoperto che il concetto di
giustizia è un utopia o una favoletta da raccontare agli illusi e che le
esperienze negative della sua giovinezza lo avevano fortificato e abituato ad affrontare
le difficoltà a testa alta e a schiena dritta. Convinto delle sue scelte anche
quando aveva grossi costi da pagare; non per eroismo o stupidità ma
semplicemente perché, come diceva Primo
Levi, un uomo è un uomo.
Ma i
pensieri di ieri erano più confusi e superficiali. E poi quel senso di rimorso,
di colpa nei riguardi del padre. Quell’uomo si stava ammazzando di lavoro per
dare una vita decente alla sua famiglia. Si era trovato anche un’altra attività
da svolgere nel tempo libero: consulenza fiscale a piccoli artigiani e piccole
aziende. Ogni tanto incaricava Leo dei versamenti; documenti
e soldi e il primo pomeriggio dopo la scuola di corsa nella sede della
Banca d’Italia a pagare le tasse dei “clienti” del padre. Naturalmente la
cortesia aveva un suo riscontro economico, cinquecento o anche mille lire
secondo il caso. Un’integrazione alla paghetta del sabato molto utile perché
fra cinema e pizza o gelato la vita di uno studente liceale ha delle spese
obbligate. E poi Leo si era messo anche a fumare più per moda che per
convinzione ma lo facevano tutti e un sedicenne che non fumava era troppo
controcorrente. Le ragazze invece non
avevano obbligo di fumo, ma qualcuna qualche sigaretta di nascosto se la
faceva.
In quel periodo Leo fumava solo sigarette americane, Kent in particolare, che comprava di contrabbando in un negozietto del Carmine; negozietto perché la vendita era talmente scoperta che avrebbero potuto mettere l’insegna: QUI TUTTO IL TABACCO DEL MONDO, DALLA SVIZZERA A PREZZI POPOLARI. Le sigarette hanno un costo fisso, per fortuna che un suo cugino carabiniere, in servizio a Brescia, ogni tanto, quando andava a cena a casa dello zio, portava stecche di sigarette sequestrate. Il padre di Leo non aveva mai fumato, la madre aveva smesso da tempo, quindi un piccolo tesoro per lui. Ma Leo non riusciva a resistere alla tentazione di provocare il cugino.
-Ma come,
sequestrate le sigarette ai contrabbandieri e poi le tenete per voi?-
-Le vuoi le
sigarette gratis? E allora fatti i cazzi tuoi.- Replicava il cugino. Solo un paio di volte Leo
si permise di fare lo spiritoso poi pensò che non era il caso di insistere, le
sigarette erano a costo zero e, come insegna la storia, Parigi val bene una
messa.
Il Castello è stato il crocevia di molte storie. Leo in realtà non aveva molto da raccontare, i suoi amori giovanili erano talmente brevi che si spegnevano già sulla prima salita. Neanche scioperi scolastici e relative ferie. In verità c’era stato un tentativo una volta, la scusa erano stati i caloriferi che funzionavano a singhiozzo. Il riscaldamento anzi il mancato riscaldamento è sempre stata la scusa più amata e usata dagli studenti italiani. Spesso era vero ma al Calini tutto funzionava quasi sempre in modo perfetto. Quella settimana di fine novembre c’era un’aria e un freddo da commuovere un orso polare, un gelo che le parole che uscivano di bocca si trasformavano subito in ghiaccioli. Erano poco più delle sette e mezzo di mattino quando un voce anonima gridò : -Sciopero!-
Metà degli
studenti entrò subito a scuola, mai
fatto prima, in genere aspettavano tutti, esclusi i secchioni, l’ultima campanella.
Ordinaria amministrazione, erano tutti figli di “ padroni” e “ padroncini” di
fabbriche e fabbrichette metal meccaniche, un industria che all’epoca, a Brescia, stava
costruendo benessere e ricchezze come in poche altre parti d’Italia. I rampolli
erano quindi predestinati a stare dall’altra parte della barricata. La parola
sciopero era per loro una bestemmia. A dieci minuti dall’inizio delle lezioni
entrarono tutte le ragazze, una questione di stile e di buon gusto. D’accordo
una pomiciatina mattutina col ragazzo, passeggiando tra gli alberi del viale ma
appena appena, prima che qualcuno
pensasse con malizia ad strane attività delle fanciulle. Alle otto meno cinque
suonò l’ultima campanella: uscì il bidello che pronunciò il suo discorso con
voce stentorea.
-Alle otto
precise chiudo il portone e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Ordine
del SIGNOR PRESIDE.-
Neanche le trombe dl giudizio universale avrebbero fatto meglio. Una valanga umana si scaraventò dentro il portone fra spinte, calci e gomitate. Fuori rimasero una dozzina di incerti e stralunati ribelli poi, pian piano, qualcuno si avvicinò distrattamente all’ingresso, un occhio fuori e un piede dentro. Quando chiusero il portone, fuori erano rimasti solo in due: Leo e Luciano. La passeggiata al Castello quel giorno fu molto triste, non c’era in giro nessuno, anche la visita allo zoo fu priva di attrattiva. Già Leo non amava gli animali in gabbia, considerava quella pagliacciata come uno spettacolo triste e poi anche gli animali, dato il freddo, si erano rintanati in posti più riparati. Solo le foche sembravano felici, giocavano e saltavano nell’acqua gelida. E pensare che le aveva sempre viste addormentate o immobili come statue. Quella vacanza fu naturalmente punita: tre giorni di sospensione con la solita clausola della frequenza .
-Con le note che ci ritroviamo non credo che il nostro futuro sarà molto roseo.- Disse Luciano all’amico e fu facile profeta. Infatti furono buttati fuori insieme.
-Hai
ragione. Perché rovinare una bella amicizia con una separazione. Questa
dev’essere l’opinione del preside?- Fu il commento di Leo, Luciano invece fu
più prosaico:
-Stronzo!-
Il Castello
era anche sede di manifestazioni varie,
culturali, sportive e altro. Una volta il gruppo di amici decise di
andare ad un festival dell’ Unità. La proposta nacque dalla lettura del
giornale di Brescia da parte di Maurizio. Nessuno di loro aveva l’abitudine di
leggere quotidiani, figuriamoci poi quello locale. Solo Luciano, per una
forma di
snobismo, leggeva Le Figarò; doveva, è vero, andare fino
alla stazione ferroviaria perché c’era l’unica edicola che lo vendeva ma con
quella scusa non studiava il francese e, maledizione, andava pure bene a scuola.
L’insegnante di francese, una megera che sembrava uscita da I miserabili
di Victor Hugo, indicava Luciano
come esempio di studio, di pronuncia e scrittura corretta anche se, secondo
Simone, Luciano i libri di francese non li aveva neppure comprati.
E Simone fu anche la causa della prima discrepanza tra il gruppo di amici. Nessuno di loro si era mai occupato di politica anche se la casa di Simone sembrava un museo del fascismo. Nella villa, di fine ottocento, della sua famiglia c’era un salone che normalmente rimaneva chiuso ma una volta i ragazzi erano entrati, su invito di Simone che voleva mostrare agli amici l’antica nobiltà della sua famiglia. Si trattava di una grande camera dominata da un lungo tavolo in ebano, riccamente decorato, coperto di documenti, libri e materiale vario. Al centro c’era un grande busto bronzeo di Benito Mussolini. Le pareti erano piene di quadri, di fotografie, volti di personaggi dall’aria importante, immagini storiche del ventennio, manifesti, stendardi e una bandiera italiana con lo stemma dei Savoia. L’ambiente sprizzava allegria quanto un cimitero, le due finestre erano eternamente chiuse e coperte da pesanti tendaggi. E poi mobili e vetrine piene di cimeli; armi, divise, elmi, cappelli, pugnali. C’erano pure un paio di spadoni di probabile epoca medievale e alcune pistole tipo colt (-Questa era di Buffalo Bill.- disse sottovoce Maurizio) e poi una collezione di medaglie e altro materiale di difficile classificazione.
-Sembra il
negozio di un rigattiere.- Esclamò sempre Maurizio.
-Ma come ti
permetti. Qui è pieno di materiale di grande valore, qui c’è la storia.- Simone
non gradì il commento.
-Ma il
fascismo non era stato vietato dalla legge?- Domandò Leo che ricordava qualcosa dei pochi racconti
che suo padre gli aveva fatto dei suoi anni di militare.
-Cosa
c’entra il fascismo?- Simone si era messo in posizione di difesa, sorpreso che
gli amici non avessero gradito lo
spettacolo.
– Voi non capite un cazzo! Vi sto mostrando una grande pagina di storia
e…_
-Una storia di merda per quello che mi hanno
raccontato.- Leo aggiunse altra benzina su un focherello che rischiava di
diventare un incendio. La politica ha sempre provocato grandi scontri anche se
i ragazzi ancora non lo sapevano. Fu Luciano a calmare gli animi.
- Perché litigare per le stronzate che hanno fatto i nostri padri e i nostri nonni. Questa è semplicemente una camera triste, piena di ricordi tristi per gente triste.- Simone lo guardò in silenzio, con uno sguardo cattivo che Leo non gli conosceva. Quella strana serata fu un segno, un momento di conoscenza non solo di alcuni particolari di storia poco conosciuta ma specialmente di un aspetto del carattere di Simone che non era mai venuto alla luce prima. Dietro il suo umorismo feroce ma simpatico si nascondeva qualcosa di inquietante e sgradevole. Infatti quella visita rimase unica e il tema del fascismo non fu mai più affrontato. Con la fine del liceo si sarebbero tutti persi di vista, ma nel 1969, dopo le lotte studentesche, quando la grande rabbia cominciava a scemare e il riflusso si portava via sogni ed illusioni, Leo trovò Simone ad una riunione di militanti di un gruppo di estrema sinistra.
“ Gira che
ti rigira amore bello, il mondo è sempre quello, un cesso pieno di rifiuti.”
Pensò Leo e, ricordando quel salone triste, neanche si avvicinò all’amico di
ieri.
La festa
dell’Unità, in una delle soffocanti notti estive di Brescia era un’occasionale
alternativa alle passeggiate senza meta o alle scorribande al Luna Park, che
ogni anno, d’estate, per due mesi
occupava uno spazio libero dietro lo stadio Rigamonti. Il tentativo era quello,
eterno, di rimorchiare qualche ragazza ma il più delle volte erano buchi
nell’acqua. Solo Carlo ogni tanto andava a segno provocando l’invidia di Maurizio.
-L’altra sera, mi ha detto, che è riuscito a farsi fare una sega da una ragazza conosciuta mezz’ora prima. Non è giusto. A me capitano solo quelle serie è già molto quando qualcuna si fa palpare il culo.- Il grido di dolore di Maurizio lasciava indifferenti gli amici.
- Non vedi che
ti prende in giro, Carlo inventa balle per darsi importanza.- Sostenevano Leo e
Simone. Luciano se ne fregava , lui aveva la ragazza fissa.
La festa non
era male con molta roba da mangiare specie carne arrosto e salsicce; al posto del pane, fette di polenta bianca
messe a rosolare sulle griglie. Certo che con il caldo, quel fuoco e il fumo non erano il massimo, tanto valeva fare una
passeggiata all’inferno per cercare un po’ di fresco. La musica invece non era
male; sopra un palco fatto con tubi innocenti e tavoloni da muratore si esibivano piccoli
gruppi musicali locali. Tutta musica rock che, se piaceva ai giovani, provocava
malumori e mugugni nei vecchi compagni
che invocavano Oh Bella
ciao ed anche Bandiera rossa.
-Quando saranno
tutti cotti di vino e grappa, dopo il comizio del politico di turno non solo la
canteranno la Bandiera Rossa ma la sventoleranno pure. – Spiegò Luciano che non
era al suo primo festival perché aveva uno zio partigiano.
-Almeno si faranno
un po’ di aria.- Rispose velenoso Simone. Il piccolo Balilla non si trovava a
suo agio tra stand, bancarelle, manifesti, bandiere che inneggiavano al
comunismo. Un vecchio operaio in pensione che abitava nella zona delle case
INCIS e che frequentava lo stesso
barbiere di Leo riconobbe il ragazzo e lo abbracciò quasi stritolandolo. Poi
abbracciò anche gli altri.
-Bravi
ragazzi, voi siete il nostro futuro, Viva Stalin- Gridò felice poi si buttò sopra un tavolino
dove altri pensionati cercavano il quarto per uno scopone.
-Chi è
questo Stalin?- Chiese Maurizio, lui si intendeva solo di musica.
-Giuseppe
Stalin detto baffone, il padrone della Russia.- Spiegò Luciano- Per questa
gente è una specie di messia che deve venire a liberare le masse.-
-E verrà davvero?-
Chiese di nuovo Maurizio.
-Si, certo, a parte che è un po’ morto, per liberare te dal tuo cervello malato ci vorrebbe un miracolo.- Su questa battuta la discussione si spense e poi che ci stavano a fare lì, ragazze ce n’erano poche e quasi tutte stavano lavorando. Meglio tornare giù in città magari a mangiarsi una fetta fresca di anguria.
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