La colonna infame
di Leo Spanu
Quando, alla fine degli anni 60, a Santa Caterina Valfurva cominciò il turismo invernale, nacquero molte costruzioni compreso un "monumento" che, per fortuna, non passò alla storia di quell'ameno paese.
Ho raccontato in "Passo del Gavia" la tragica avventura di un reparto di alpini, non ho mai raccontato del breve soggiorno di quei soldati a Santa Caterina.
Il reparto, dopo la slavina, s'era sciolto come neve primaverile al primo sole; piano piano, in piccoli gruppi, i soldati entrarono in paese. C'erano alcuni civili, insieme ai militari, che ci aspettavano con gavette di the bollente, la prima bevanda calda dopo giorni di freddo e di pasti disperati. Fummo sistemati in due alberghi ancora in costruzione ma già parzialmente in attività, naturalmente non nelle camere ma nelle soffitte ancora odoranti di cemento con i pavimenti, sempre in cemento, come letti. Col sottotenente medico Z. mio superiore, mi lamentai che io avrei dovuto dormire in piedi come i cavalli visto che il mio sacco a pelo era stato sequestrato per trasportare il cadavere dell'alpino morto ma lui era un tipo ottimista e mi rispose che ci avremmo pensato dopo aver svolto il nostro lavoro: già, perchè mentre i miei compagni di viaggio potevano buttarsi a terra e cercare di riposare, io dovevo lavorare. Niente di faticoso o grave, qualche inizio di congelamento tra quelli che avevano scavato nella neve con le mani nella frenetica ricerca degli alpini sepolti sotto la valanga, piccoli disturbi fisici e psicologici dovuti alla fatica e allo stress di cinque giorni di marcia dentro la tempesta.
Neanche il tempo di un pasto decente, quando finalmente stavo pensando ad un meritato riposo ci chiamano, io e il tenente, per una "emergenza". Ci troviamo davanti al proprietario di uno dei due alberghi, uno tanto incazzato che sembrava Giove Pluvio mentre lanciava fulmini e saette contro l'esercito italiano, contro il mondo intero e contro se stesso, tanto coglione da aver offerto la sua ospitalità (secondo me ben pagata) a barbari selvaggi scesi dalla montagna a distruggere il suo meraviglioso albergo. In realtà l'albergo non era proprio una meraviglia, in alcuni punti, se non stavi attento, sbattevi la testa contro il soffitto ma era sempre meglio, per noi soldatini italiani, che dormire dentro la neve (vedi racconto Passo del Gavia). Nella soffitta c'era anche un gabinetto appena costruito, lavandino, water e niente bidè (alla francese) e lì eravamo diretti a grandi passi; l'albergatore aprì la porta con gesto deciso e con espressione cupa e feroce che neanche Vittorio Gasmann in " L'armata Brancaleone" e davanti ai nostri occhi apparve un inconsueto paesaggio: dal water saliva una colonna, 80 centimetri-un metro di merda multicolore. La nostra sorpresa fu tale che ci dimenticammo di ridere ma davanti all'albergatore travestito da Minosse, pronto ad emettere la sentenza di condanna, il tenente Z. seppe solo dire:" Sa, un centinaio di ragazzo di vent'anni, che da cinque giorni non andavano di corpo, effettivamente..." Lì si fermò e nei suoi occhi vidi la domanda che anch'io mi ponevo: " Ma l'ultimo come ha fatto? Neanche stando in piedi sul water! Qui sono state stravolte tutte le leggi della fisica, anche quella di gravità."
Rimasti soli il sottotenente medico bergamasco ed io infermiere alpino, sardo bresciano, che a parte i ruoli, eravamo anche buoni amici, provammo a commentare il fatto. "Tu che ne dici?" Mi chiese." Dalla montagna di neve alla montagna di merda. Normali storie di vita militare." Risposi.
Il giorno dopo ci traferimmo da Santa Caterina a Bormio dove ci aspettavano i camion per riportarci in caserma a Merano. 17 (diciassette) chilometri di strada statale. A piedi.
Commenti
Posta un commento