A Brescia non c'è la nebbia. Cap.7
Cap. 7
Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte
La famiglia
Sanna rimase poco nella scomoda e piccola abitazione di via Milano.
Dopo pochi
mesi si liberò un appartamento nel palazzo INCIS, all’inizio di via Vittorio
Veneto, proprio di fronte al Campo di Marte, una vasta area verde di oltre 30.000
quadri di superficie, di proprietà dell’esercito.
Scala 4°, terzo piano, la
nuova abitazione era molto comoda per le sue dimensioni. Quattro camere più
servizi: un grande ingresso collegato
con una stanza, la più grande, destinata a diventare salotto con una finestra
che dava sulla strada, a destra un grande sgabuzzino con finestrone sulla scala
interna. Fu aggiunto un letto e quella divenne la camera preferita di Leo che la utilizzava non solo per dormire
(era un gran dormiglione quando possibile) ma per leggere, pensare e rimanere solo.
Lo chiamava il mio pensatoio, un angolo dove
isolarsi. Infatti bastavano due porte
a chiudere fuori il resto del mondo e neanche le urla della madre
potevano arrivare a disturbare.
A
sinistra dell’ingresso iniziava invece un lungo e stretto corridoio chiuso in
fondo dal bagno con la cucina ed una stanza, quella dei due fratelli, che si
affacciavano sul cortile interno e due camere, quella dei padroni di casa, e
quella molto piccola della sorella Silvana con le finestre sulla strada. L’appartamento,
come tutti gli altri, era dotato inoltre di una cantina e di un grande locale
in solaio.
Lo scantinato
era un labirinto di stanzette buie dove i bambini piccoli non entravano mai,
spaventati dalle tante favole di uomini neri nascosti nell’ombra.
In realtà
l’illuminazione era scarsa, il più delle volte solo una lampadina nuda in ogni
camera mentre i corridoi rimanevano al buio perché ancora non esisteva il
condominio e nessuno avrebbe speso una lira per gli spazi comuni. Del resto le cantine venivano utilizzate come
deposito di materiale e attrezzature non più utilizzate.
La soffitta era
invece più interessante perché ogni
locale aveva una finestrella per far entrare la luce. Qualche anno dopo
Giuseppe, il fratello di Leo, avrebbe trasformato, col permesso del padre, il
locale in una piccola e privata sala da ballo. Lavori di insonorizzazione, luci
psichedeliche, colori impazziti alle pareti, tutto per formare un piccolo mondo
dove Giuseppe era direttore e padrone.
Leo non amava molto quel posto e non lo
frequentò mai. Non c’era neanche la necessità di farlo perché i due fratelli
crescendo avevano preso strade diverse, altri amici e altre compagnie.
Giuseppe
si era affrancato dal peso del fratello maggiore e non aveva più bisogno di
lui.
L’affetto era immutato, dormivano nella stessa stanza, avevano la scrivania in comune per studiare, Leo allo scientifico, Giuseppe prima all’istituto agrario poi all’istituto tecnico.
L’affetto era immutato, dormivano nella stessa stanza, avevano la scrivania in comune per studiare, Leo allo scientifico, Giuseppe prima all’istituto agrario poi all’istituto tecnico.
I libri sullo scaffale, a parte i testi scolastici, invece erano
di Leo. Li comprava in una bancarella di
libri usati vicino al liceo Arnaldo, in particolare narrativa di fantascienza.
Pagava la metà del prezzo di copertina e, se gli piaceva lo conservava,
altrimenti rivendeva il libro allo stesso libraio di bancarella ad un terzo del
prezzo, sempre di copertina.
Il fratello
invece non perdeva molto tempo con la lettura.
Qualche anno dopo gli capitò in
mano un romanzo rosa della sorella adolescente, lo lesse tutto in una tirata ma
non diede nessun giudizio, prese una penna biro e con un lungo lavoro di
riscrittura corresse il titolo sulla
copertina del libro.
Così “ Tre sorelle da maritare” divenne “ Tre sorelle da smerdare”. Ma quanto
faceva schifo quel romanzo?
Tornando al
monumentale palazzo, bisogna dire che oltre all’ingresso degno di un tempio
romano, visto che gli architetti del fascismo si ispiravano molto all’antica
storia italica, v’erano anche una serie di locali affittati ad uso commerciale.
C’era una bottiglieria dove Leo andava a comperare le polverine tipo idrolitina per fare l’acqua frizzante
o acqua-di-viscì e il vino per il padre, che amava berne un bicchiere quando mangiava, produzione locale della ditta Folonari.
Secondo il padre il vino era buono perché fatto con le vinacce che l’industriale
bresciano andava a comprare a Sorso, loro paese natio, dalla locale cantina
sociale.
C’era poi la latteria della signora Lavinia, una vedova con un figlio
a carico di età indefinita.
La signora Lavinia era famosa per la sua
inesauribile scorta di pesciolini di liquerizia, veramente buoni, che erano la
passione di tutti i bambini del circondario. Divenne anche luogo di “appuntamenti”
per amori infantili. Tutto nacque per caso una domenica mattina; Leo si era
alzato presto contro le sue abitudini e,
mentre stava uscendo, diceva alla madre che brontolava come una pentola sul fuoco sempre per la
stessa storia:
-Già ci vado
a messa ma’. Ma dopo, prima ho da fare.-
Era una bugia spudorata perché il ragazzo era entrato nel periodo di
rifiuto dell’educazione religiosa, imposta e bigotta che aveva ricevuto e si
stava avviando ad elaborare e formare
una sua concezione laica e critica dell’esistenza.
Aprendo la porta notò un
foglietto di carta piegato che spuntava da sotto. Lo raccolse, era indirizzato
al fratello; la curiosità spinse Leo a leggere subito il messaggio senza nessun rispetto per la riservatezza .
“ E’
tanto che non ti vedo. Fatti mandare dalla mamma a
prendere il latte.”
Come firma
una semplice iniziale. La canzone di Gianni Morandi era diventata una nuova
forma di comunicazione per amori adolescenziali. Una dodicenne, come Leo scoprì
dopo, che mandava bigliettini d’appuntamento ad un quattordicenne era un invito a nozze, una
dichiarazione di guerra per Leo che non perdeva occasione per prendere in giro
il fratello.
-Romeo, c’è
posta per te. C’è una Giulietta che spasima per te. Mamma, metti a scaldare il biberon che il pupo ha un incontro amoroso.-
Prima che la
madre potesse intervenire Giuseppe era saltato dal letto e si era gettato sul
fratello per strappargli la lettera e picchiarlo, cosa quasi impossibile perché
fisicamente era più piccolo.
Comunque
quello fu il primo capitolo di una lunga serie di fidanzatine che Giuseppe
presentava alla madre. Mai al fratello che se ne fregava o al padre che
ignorava la carriera di don Giovanni del figlio. Qualche volta le presentava
alla sorella ma lei era ancora troppo piccola per dare importanza alle
confidenze del fratello.
Giuseppe, crescendo, divenne più alto di Leo. Magro come un’acciuga, una gran massa di capelli neri e ricci, un sorriso da simpatica canaglia, una buona capacità dialettica, piaceva alle ragazzine sue coetanee e loro piacevano a lui. Ne cambiava in continuazione e regolarmente le presentava alla madre che non aveva nessuna intenzione di dargli corda con quella mania e invece ogni tanto si trovava in casa una qualche mocciosa di cui non riusciva a ricordare neppure il nome.
Giuseppe, crescendo, divenne più alto di Leo. Magro come un’acciuga, una gran massa di capelli neri e ricci, un sorriso da simpatica canaglia, una buona capacità dialettica, piaceva alle ragazzine sue coetanee e loro piacevano a lui. Ne cambiava in continuazione e regolarmente le presentava alla madre che non aveva nessuna intenzione di dargli corda con quella mania e invece ogni tanto si trovava in casa una qualche mocciosa di cui non riusciva a ricordare neppure il nome.
Il padre che non aveva mai incontrato
nessuna delle spasimanti del figlio, si lamentava :
-Se pensasse
a studiare invece.-
Una volta la
mamma disse a Leo:
-Ma tu non
mi presenti mai la tua ragazza?-
-In primo
luogo, non ho nessuna ragazza e poi il giorno che te ne presenterò qualcuna,
sarà una cosa seria.-
Le case INCIS erano un mondo a se stante ma
mentre a Treviso Leo le aveva sempre considerate il centro dell’universo,
almeno il suo, a Brescia, erano solo un
brutto palazzo dove abitava e dove evitava di crearsi amicizie da frequentare.
Era ancora giovane ma aveva già imparato il primo comandamento del perfetto
cittadino, nel significato di abitante di una città: nessuna confidenza con
nessuno e buon giorno e buonasera con tutti. Si finisce col vivere in armonia
con tutto il vicinato salvo scoprire, troppo tardi, che quel signore del primo
piano, che Leo non guardava neanche in faccia, era l’esimio professor P.
preside del liceo scientifico Annibale Calini.
Comunque la
vita, quella vera, cominciava all’ingresso di via San Faustino o di via
Garibaldi, destinazione il centro, corso Zanardelli, passando da piazza della Loggia o da piazza della Vittoria. Nel primo
itinerario c’era la fontanella sotto la
torre dell’orologio a rinfrescare generazioni di ragazzi, durante l’afa estiva.
Quando,
molti anni dopo, Leo vide la “sua” fontana in televisione, nel bianco e nero dei corpi straziati per terra,
nell’angoscia della gente sfuggita all’abbraccio di una bomba vigliacca e
assassina, smise di respirare e di pensare. Come una statua rimase a fissare a lungo quelle immagini, gli occhi e il cuore di
pietra.
Nel secondo
itinerario, con scorciatoie attraverso le strette vie del Carmine, era invece
la fontana della Pallata a dare refrigerio. Tutta acqua buona, fresca e gratis poi improvvisamente tutte le
fontane d’Italia si “sono inquinate” da
sole. Oggi si salvano solo alcune fontanelle a Roma ma ancora per
poco. I tempi moderni prevedono grandi consumi di acque minerali per riempire e
coprire strade, prati, laghi, mari e montagne con bottigliette di plastica. Da
qualche anno anche l’acqua del rubinetto è diventata non potabile. Un tempo
potevi bere a qualsiasi fontanelle pubblica o dal rubinetto di casa. Se poi
esageravi c’era sempre un vespasiano dove svuotare, in forma legale
e senza multe, la vescica. A proposito, la domanda di Leo, ma non solo sua, era:
- Ma le donne dove fanno la pipì?-
In effetti
perché nessuno ha mai pensato a costruire vespasiani per signore. E’ una di
quelle domande che non hanno mai risposta un po’ come: è nato prima l’uovo o la gallina? Prima o poi ci sarà qualche università americana,
quelle che fanno ricerche inutili e stupide, che investirà soldi e tempo per scoprire l’inventore dell’acqua calda e
dell’aria fritta.
L’uomo, al contrario, è nato per porsi domande vere e importanti sulla vita e
sull’universo e come diceva un uomo di mondo che aveva fatto il militare a
Cuneo:
Per
andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?
Il vigile
milanese, un “ghisa”, non seppe cosa
rispondere al quesito di Totò (al
secolo Antonio De Curtis). Probabilmente neanche “Gianni
il vigile” che stazionava abitualmente davanti alla torre della Pallata avrebbe
trovato una soluzione.
Lui faceva
il vigile volontario e dirigeva il traffico senza che ve ne fosse bisogno.
Era
un personaggio gentile e innocuo ma aveva questa mania e pensare che da via
Garibaldi si poteva scendere solo in via della Pace perché le altre direzioni
possibili erano precedute da un bel cartello di senso vietato. A Leo, Gianni ricordava un altro vigile “volontario”
del suo paese. Anche questo dirigeva il traffico, non molto frequente a quei
tempi, e sembrava anche più preparato del collega bresciano.
Non è vero
che tutti i pazzi pensano di essere Napoleone, molti credono di essere vigili urbani e c’è da dire
che questi sono molto più utili alla società di certi automobilisti da
strapazzo: sani di mente ma incapaci di guidare e ignoranti delle regole del
codice della strada.
Probabilmente
in ogni paese e città c’è un “Gianni il vigile” che dà il buon esempio segnalando
a utenti confusi e distratti nuovi
indirizzi “ per dove andare”.
Il problema, purtroppo, sono i Napoleoni che ogni tanto ma regolarmente spuntano in varie parti del
mondo. Non tutti vogliono aiutarci a
vivere, magari meglio. Qualcuno ci aiuta a morire.
Oltre a
vigili matti e a napoleoni fusi, nelle
grandi città ma ormai anche nelle piccole, girano personaggi di ogni specie,
strani, incredibili, a volte innocui spesso no.
Il bello delle città è che non
interessa a nessuno. Il vicino di casa,
quello che abita nella stessa scala, è vicino quanto la Patagonia o la Mongolia.
Raramente succedono fatti che riescono a coinvolgere una piccola comunità.
Quella volta le case INCIS e dintorni si coalizzarono in una caccia all’uomo.
C’era in giro un maniaco che importunava le bambine: la voce esplose come un
tuono durante un temporale estivo. Se
fosse vera o no la notizia non fu chiaro però i due soci barbieri, una specie
di Gianni e Pinotto, che curavano i capelli a tutti da sei ai novant’anni con
lo stesso taglio a ciambella, confermarono tutto.
E il
barbiere, all’epoca, veniva subito dopo il giornale radio e prima del parroco
nel campo dell’informazione. Oggi il 90% delle cazzate le spara internet ma nel
1964 la gente era
più semplice e meno sensibile alla tecnologia.
In quell’occasione furono
introdotte per la prima volta ronde diurne e notturne per controllare e
bonificare il quartiere dai maniaci.
Anni dopo lo stesso principio fu recuperato per controllare africani, marocchini
ed altre razze inferiori (nel senso che venivano dagli inferi).
Anche Leo fu
arruolato visto che aveva una sorellina a rischio e in ogni caso, come disse un
improvvisato capopolo, in un’affollata riunione di genitori, in una sala della
Pavoniana, gentilmente concesso dal parroco:
-Questo lo
dobbiamo prendere e fargli passare la voglia. –
I gesti del come trattare il maniaco sessuale furono tanto espliciti che
il parroco si pentì di essere presente ma era casa sua.
Per un paio
di giorni nel quartiere si respirò un clima di tensione da prima della
battaglia.
Un mendicante che stazionava davanti alla chiesa della Pavoniana
decise di cambiare zona tanto non riusciva a fare granchè come elemosine.
Invece il mendicante “ ricco” che una volta la settimana andava a suonare ad
ogni appartamento del palazzo INCIS
continuò a lavorare senza essere disturbato.
Veniva definito “ricco” perché era
vestito con dignità, un abito consumato dal tempo ma pulito, il cappello tipo
Borsalino, quasi sempre la cravatta. Portava
una capiente borsa e un sacco alla Babbo Natale e accettava tutto anche il pane
raffermo. Un giorno Leo decise di saperne di più e in poco tempo comunicò alla
madre incuriosita il frutto delle sue ricerche.
L’uomo,
oltre cinquant’anni, era sposato, aveva due figli che studiavano
all’università. Abitava in una villetta a due piani di sua proprietà, nella
periferia di Roncadelle. Aveva un piccolo
terreno coltivato a vigna, un orticello e alcune galline e qualche coniglio.
Tutte le mattine la moglie lo accompagnava al lavoro in macchina, una Mercedes,
poi a fine giornata andava a riprenderlo.
-Io lo
sapevo che era un signore, così educato e gentile.- Commentò la mamma.
Leo non
disse niente però ce n’era gente strana
in giro. Questo s’era inventato il mestiere di mendicante e guadagnava pure
bene.
Il maniaco
invece non fu mai scoperto. Si disse che un individuo ambiguo dall’aspetto poco
rassicurante, era stato fermato una notte da una ronda ma era fuggito e prima
che qualcuno potesse agguantarlo era scomparso nel buio.
Certo che
devono essere molte le bambine di nove-dieci
anni che girano di notte da sole.
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