Il lager
di Leo Spanu
Nel 1982 ho fatto un viaggio nell’allora Germania dell’Est.
Ho visitato la parte orientale di Berlino,
Alexanderplatz, il famigerato muro dalla parte buia. A poca distanza da
Berlino c’è il campo di concentramento di Sachsenhausen, un nome
impronunciabile. In quel lager morirono oltre 30.000 persone per fucilazione,
per fame, per dissenteria, per polmonite, per esperimenti medici. Erano ebrei, prigionieri politici, persone
asociali, zingari, omosessuali, testimoni di Geova. Erano uomini, donne, bambini. Erano
persone, esseri umani , erano come noi: carne e sangue, pensieri e speranze.
Era un giorno d’ottobre quando visitai quel campo: un
pallido sole non riusciva a sciogliere il gelo di quel posto. Ho visto cose che
non avrei mai voluto vedere. Avevo letto molti libri su quella storia, su quell’umanità
perduta per sempre: aguzzini e vittime insieme. Ho letto molto per capire ma
non ho capito. Ho girato in silenzio tra quelle memorie, incapace di parlare,
di pensare. Ad un certo punto ho chiuso gli occhi per non vedere più, ho
sperato di trovarmi molto lontano da quel posto. Inutilmente, tremavo ma non
era il freddo di quei locali; era il
freddo che sentivo dentro per una domanda che non volevo pormi. Ma davvero noi
uomini abbiamo fatto questo?
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