Oh che bel cappello...(R)

 di Leo Spanu

Il bello di rileggere vecchi articoli (regolarmente pubblicati sul mio blog) è che sono un integrazione alla memoria che ogni tanto perde qualche colpo. Ad esempio l'altro giorno stavo per entrare dal tabacchino poi mi sono ricordato che ho smesso di fumare quasi dieci anni fa.

Oh che bel cappello… (2016)

Quando ero giovane mi piaceva andare a teatro, naturalmente in loggione visto che i miei mezzi finanziari non mi permettevano posti nei palchi o in platea. A volte ci si annoiava mentre si aspettava l’inizio dello spettacolo; infatti per trovare un posto decente in piccionaia (leggi loggione) bisognava presentarsi un paio d’ore prima  dell’inizio con fila lunga che neanche i pensionati alle poste il giorno della pensione. 

A volte, per riempire i tempi dell’attesa si dava un’occhiata verso il mondo di basso dove i ricchi rappresentanti della nuova industria bresciana potevano appoggiare le loro riverite chiappe sui velluti delle poltrone color rosso granato. Noi in alto, studenti squattrinati, operai  e lavoratori con una punta di vera cultura in più rispetto ai loro sottostanti datori di lavoro (allora si chiamavano padroni) si discuteva di tutto un pò.  A mio modesto parere il Teatro Grande di Brescia si chiama così non per le (notevoli) qualità artistiche delle sue architettura  o per l’acustica ma per la prosopopea della gente buzzurra che lo frequentava durante la stagione teatrale od operistica solo per esibire la nuova ricchezza. 

Una volta (mi spiace non ricordo lo spettacolo, forse c'era Gino Cervi protagonista) entrò in platea una gentile e matura signora e si presentò con marito che tutti ignorarono, abito di lusso dal costo di due mensili di un operaio metalmeccanico ed un enorme cappello tipo ombrellone da spiaggia come se ne vedono in Versilia. Era di un color giallo come il sole della campagna bresciana quando non è incazzato e non si nasconde dietro la nebbia. 

Ci sono pensieri ed ispirazioni che nascono insieme come istillate nella mente degli uomini da un dio malizioso così tre o quattro ragazzi cominciarono a cantare un vecchio ritornello con una piccola modifica: 

"Oh che bel cappello  marcondiro-diro-ndello, marcondiro-diro-ndello,

oh che bel cappello marcondiro-diro-ndello, marcondiro-diro-ndà.

Ma il mio è ancor più bello marcondiro-diro-ndello, marcondiro-diro-ndello...

 I cantanti divennero dieci, cento e anche più e un coro celestiale si levò dal teatro e raggiunse il cielo. Il direttore artistico della Scala di Milano decise di licenziare in tronco il suo coro per assumere in blocco il loggione canterino dei cugini bresciani. Erano perfetti per cantare l’aria del “ Va pensiero su l’ali dorate, sui capelli argentati e sulle scarpe chiodate”. 

La signora dal largo cappello si guardò intorno; prima scrutò  il marito e gli amici, poi i vicini di poltrona. Era un sorriso di solidarietà o di scherno quello che leggeva nei loro occhi? Intanto il coro aveva raggiunto le pendici delle Alpi. Il marito dell’infelice signora decise che non poteva aspettare un decennio l’approvazione del divorzio e sciogliere quel matrimonio che stava naufragando nel ridicolo. Poteva licenziare i suoi operai a decine nella sua fabbrica di Lumezzane ma non riusciva a licenziare una sola moglie. Dopo due minuti (un tempo che sembrava infinito) di:

" E noi lo ruberemo marcondiro-ndello, e noi lo bruceremo marcondiro-dà ” 

la signora cominciò a pensare seriamente al suicidio. Quei barbari in alto non smettevano di cantare.  Anche il coro degli alpini decise che potevano aggiungere quella canzone al loro repertorio. Loro il cappello lo avevano ed anche la penna in più. Dopo tre minuti, un tempo infinito per chi soffre, la signora si tolse il cappello e uscì dalla sala con l’umore che aveva Napoleone a Waterloo. Nessuna pietà per i vinti. L’applauso che seguì l’uscita di scena della signora senza cappello fu una stand ovation. 

Gli attori, protagonisti dello spettacolo vero, alla fine della rappresentazione, ne pretesero uno uguale.

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