A Brescia non c'è la nebbia: Cap. 15

 

Capitolo 15°                    Sardegna mia mostrati gentile

Brescia è sempre stata una città con una forte presenza di sardi che si sono sempre inseriti senza difficoltà anzi sono sempre stati ben visti e accettati dai bresciani. Nessuna discriminazione razziale come capitava alle altre comunità che provenivano dal sud specialmente per i siciliani e ancor di più i calabresi.

-Voi sardi non siete meridionali, gli altri si. – Spiegava Simone.

 – Noi nordici, loro sudici.-  Aggiungeva poi. A questa battutaccia Leo replicava inevitabilmente con : - Ma va a cagare!-

In realtà Leo non si era mai accorto di queste discriminazioni, a lui non era mai capitato di essere importunato o offeso per le sue origini. Il fratello invece aveva subito un paio di   tentativi  di molestia da parte dell’imbecille di turno.  Ma Giuseppe era il tipico rappresentante della Sardegna, almeno come sono identificati  i sardi secondo certi stereotipi. Una massa di cappelli nerissimi e ricci, occhi sempre neri ma luminosi e penetranti, carnagione scura. A sedici anni era cresciuto  più del fratello ma era magro da far paura, malgrado fosse una promessa delle giovanili di calcio del Brescia. A vederlo  non gli avresti dato nessuna una possibilità di sopravvivenza ma qualche panino per impedirgli di morire di fame. Così pensò un imbecille che in un bar teneva un comizio contro i meridionali che “ vengono a rubarci il lavoro” quando vide entrare Giuseppe.

- Ecco vedete, il solito marocchino che viene a chiedere l’elemosina.- Gridò rivolto ai presenti indicando il ragazzo. Ma Giuseppe non era tipo da subire passivamente.

-Cos’hai detto?-

- Marocchino.-

-Ripeti.-

-Marocchino.- L’uomo era grande e grosso ma aveva bevuto qualche birra di troppo.

-Io sono sardo e non marocchino, coglione.-

Dopo di che scattò rapido come quando giocava e piazzò un pugno, uno solo, sul mento dell’uomo che cadde a terra fulminato, come un sacco di patate. Ma non trovò una grande solidarietà  tra i clienti del bar, solo uno recitò una specie di epitaffio:

- Che stronzo.-

Come in tutte le città del nord c’era un Circolo dei sardi, dislocato nella zona di piazza Duomo (oggi piazza Paolo VI), e manco a dirlo, col nome solito di Bar Sardegna. Il padre di Leo lo frequentava abitualmente e una volta si portò dietro il figlio ormai diciassettenne, per incontrare qualcuno dei suoi corregionali. Massima cordialità da parte dei presenti e il padrone del bar volle offrirgli un bicchiere  di vino.

-Questo lo devi bere- disse- è del tuo paese, Dorato di Sorso.-  Leo non beveva vino quasi mai, solo in qualche rara occasione di festa ma non poteva certo rifiutare. Il liquido aveva davvero il color dell’oro, un profumo forte ma gradevole e un sapore simile alla malvasia di Oristano . Infatti disse subito:

-Sembra malvasia.-

-E bravo il nostro enologo, hai quasi ragione ma questo è molto più buono.- In realtà i vini di Sorso, prodotti dalla cantina sociale Sorso-Sennori,  erano molto conosciuti e apprezzati a Brescia; nella vetrina di Agosti,  un commerciante di vini, liquori e leccornie provenienti da tutta l’Italia, un negozio di lusso nel corso Zanardelli, i vini di Sorso, specie il Cannonau, erano sistemati  sempre in bella evidenza.

Leo non aveva molti motivi per amare la sua terra natia che del resto conosceva poco ed anche i contatti con suoi coetanei provenienti dall’isola erano abbastanza scarsi. Una volta gli dissero che c’era una ragazza della sua età che frequentava il liceo classico che aveva sentito parlare di lui e che voleva conoscerlo. L’incontro fu cordialissimo e  si svolse  nel corso davanti al teatro Grande. Manuela, questo il nome della ragazza, gli si lanciò in braccio neanche fossero amici da sempre, urlante e felice di un‘allegria contagiosa. Lui della provincia di Sassari, lei delle provincia di Cagliari, mai il  Capo di Sopra e il Capo di Sotto erano stati tanto amici nella storia millenaria della Sardegna. I due frequentavano ambienti diversi quindi erano molto scarse la possibilità di incontri ma ogni volta che capitava era festa grande o meglio “Festha Manna”. Da tempo Leo aveva notato lo strano legame che legava i sardi fuori dell’isola. Amicizia e solidarietà, anche fra classi sociali diverse, erano le componenti abituali magari tra gente che in Sardegna non si sarebbe neppure guardata in faccia. Come sempre ogni regola ha la sua eccezione ma Leo questo lo avrebbe scoperto qualche anno dopo.

Alla fine degli anni sessanta (e anche prima) il potere dei provveditori agli studi spaziava in molti campi, tra gli altri la facoltà di dare incarichi di insegnamento nelle varie scuole della città. Si trattava di supplenze di pochi giorni ma anche di incarichi più lunghi fino a coprire,  i più fortunati o raccomandati,  l’intero anno scolastico. Per alcune materie non era ancora richiesta la laurea, bastava il diploma di scuola superiore specie dei  due licei. Tra le tante materie appetibili c’era l’insegnamento di educazione fisica. Il padre di Leo scoprì che il provveditore agli studi di Brescia non solo era di Sorso ma si conoscevano benissimo per via dell’età comune. Nel frattempo nel liceo scientifico Annibale Calini si erano rese disponibili due ore settimanali di insegnamento di ginnastica. Leo aveva alcuni titoli sportivi e inoltre proveniva da quel liceo. L’incontro tra il padre di Leo e ”l’amico ” pezzo grosso fu molto cordiale. Al commiato il professore disse al compaesano:

-Non ti preoccupare. Appena si libera il posto chiamo tuo figlio.- L’incarico fu dato a S. un ex compagno di classe di Leo che per cinque anni era stato esentato da qualsiasi attività ginnica e sportiva per un qualche problema fisico. Il signor Sanna ci rimase molto male.

-Ma come, da bambini abbiamo giocato insieme!- Leo non disse niente, non conosceva il “ pezzo grosso amico del padre”  ma sapeva che dietro quella espressione molto italica e molto ruffiana si nascondevano spesso degli incredibili stronzi.

A lui, un’esperienza simile,  era capitata col suo ex insegnante di religione del liceo qualche mese prima. Un “pezzo” davvero grosso, monsignore della parrocchia della Pace oltre che insegnante. Leo si era rivolto a lui, un paio d’anni dopo la maturità. C’era il servizio di leva obbligatorio all’epoca e Leo aveva pensato di farlo da ufficiale. Un soldato di leva guadagnava 158 lire al giorno ( i militari venivano pagati a decadi, 1580 lire) mentre un sottotenente di complemento aveva uno stipendio netto mensile di circa 90.000 lire, una cifra che per un ventenne era un bel guadagno. Il monsignore fu gentile ma gli chiese perché avrebbe dovuto aiutarlo. Bella domanda. A scuola la religione non era certo stata la sua materia preferita anzi la sua indifferenza per certi argomenti era stata notata. Non era un frequentatore dei circoli dell’azione cattolica e non lo sarebbe diventato in futuro. Le parole del monsignore erano gentili ma il concetto era:  arrangiati. Dov’era finito il valore cattolico di aiutare le persone, tutte le persone.  A Leo era costata molta fatica rivolgersi ad un sacerdote anche se suo ex insegnante ma si trovava in una situazione difficile non solo personale ma anche dal punto di vista economico. I costi per gli studi universitari erano troppo alti per la sua famiglia. Chiedeva un piccolo aiuto e invece riceveva un sonore ceffone. Un altro, uno in più. Da una persona poi che, per scelta di vita, dovrebbe aiutare le persone in difficoltà. Anche se uno non lo dice, fa più male. E  poi sua madre gli chiedeva come mai lui era così lontano dalla chiesa e dai suoi riti.

Ma queste sono storie del dopo. Il liceo era oltre che una scuola un mondo che proteggeva Leo e gli altri studenti dai mondi di fuori. Uno spazio protetto per persone privilegiate, per un elite che domani doveva prendere il potere nelle istituzioni, nell’industria, nell’economia, per questa sola ragione esisteva quel tipi di scuola. Un mare chiuso, con acque sicure e tranquille. Leo si era tuffato nel mare sbagliato, questo era evidente,  ma tutte le esperienze di quei cinque anni erano state oro per affrontare la vita. Naturalmente dall’altra parte della barricata anche se quel sentirsi straniero e senza radici talvolta era faticoso. Brescia era un’altra città di passaggio come Treviso, una tappa di un giro che non aveva traguardi. Certo c’era la sua terra d’origine, la Sardegna. All’epoca gli sembrava così lontana, come un’isola  perduta nell’oceano. Nessun legame serio, solo i racconti e la nostalgia del padre. Anche sua madre sembrava lontana dal suo paese, quasi indifferente al suo passato. Lei stava bene anche lì, il suo mondo iniziava e finiva con la sua famiglia. La Sardegna per Leo era solo un posto dove d’estate andavano in vacanza e per lui non erano grandi vacanze.

Del resto la Sardegna, fin da piccolo, gli aveva riservato solo spiacevoli sorprese. E anche crescendo  quelle ferie obbligatorie a Sorso, a casa della nonna, non erano il massimo del divertimento. Infatti molto spesso andava a Sassari dal cugino Giovanni, molto più grande di lui come età, ma anche disponibile a portarsi dietro, nelle sue giornate di riposo, il giovanissimo parente. Così Leo aveva scoperto mestieri e consuetudini lavorative di quella gente tanto diversa dai bresciani che sembravano appartenere ad un altro mondo. E probabilmente era un altro mondo: Giovanni faceva di professione il barbiere, attività ereditata dal padre, era anche un bravo artista della forbice e del pettine ed era scapolo per vocazione e scelta. Ogni lunedì, con colleghi e altri non lavoratori del lunedì come i calzolai e falegnami, organizzava spuntini e altre riunioni mangerecce. Leo era regolarmente invitato e qualche volta accettò pure anche se avrebbe preferito incontri anche con ragazze, magari più grandi di lui. Non capiva infatti questa netta separazione tra uomini e donne durante pranzi e cena. Una volta seguì il cugino in una specie di piccolo bar di via Università, uno “zilleri” (1) in realtà, con retrobottega dove una volta alla settimana si mangiava lo zimino. Si ritrovarono una mezza dozzina di persone in una stanza non molto grande con un tavolo gigantesco e un camino dove un bel fuoco bruciava fragorosamente. Uno dei padroni di casa tolse da una specie di sacco un grosso pacco avvolto nella carta: cuore, fegato e tutte le interiora di un agnello da latte da arrostire sulla griglia. Leo guardava incuriosito i preparativi un po’ inconsueti per la sua, pur modesta, conoscenza culinaria: infatti le budella non venivano lavate, ma pulite (si fa per dire) con una passata di carta, andava bene anche  un pezzo di giornale. Leo chiese a Giovanni come mai mangiavano delle “cose” piene di merda e il cugino gli spiegò che si trattava di una fase digestiva precedente la merda, solo succhi gastrici. La spiegazione non convinse il ragazzo che, a cottura avvenuta, si limitò a mangiare qualche pezzo di fegato, di milza e di cuore.  Tutto buono anche il pane,  il tondo di Sorso tagliato a fette, bevve anche un bicchiere di vino però lui continuava a sentire  puzza di merda.

Un’altra volta Leo seguì il cugino sulla spiaggia di Platamona. Il pranzo era a base di sole cozze crude. Un cesto del pane pieno di mitili, almeno quaranta chili, per quattro persone più una cassa di birra, vuoto a rendere, perché le bottiglie si pagavano a parte. Leo si fece la più grande mangiata di cozze della sua vita ma fu anche l’ultima volta perché da allora solo a vederle si sentiva male. Probabilmente la colpa fu della tanta birra bevuta. Troppa considerato che quel liquido amaro neanche gli piaceva.  Intanto passò l’intero pomeriggio a pisciare in continuazione come un treno accelerato che fa tutte le fermate. Mai in vita sua avrebbe potuto immaginare che la sua vescica potesse trasformarsi in una fontana a getto continuo.

Ma la cosa peggiore erano i viaggi in nave. La compagnia di navigazione Tirrenia è l’unica cosa che unisce da sempre tutti i sardi: una disgrazia che ha ci ha perseguitato per decenni. Una vera piaga d’Egitto, la peggiore in assoluto. Neanche ai tempi della tratta degli schiavi c’erano state navi così schifose.  Nel 1962 Leo scoprì, grazie alla Tirrenia,  come poteva essere un girone dell’inferno. Viaggio di ritorno a casa, vacanze da solo quell’anno e neanche un mese a Sorso gli avevano fatto rimpiangere  la scuola. L’estate alla Marina di Sorso a mettere monete dentro il juke-box, monete da cento lire per ascoltare canzoni già passate di moda perché il proprietario del Lido non aveva tempo per aggiornare l’offerta di musica. C’era una sola canzone sopportabile: Gene Pitney che cantava Un soldino, un pezzo molto orecchiabile e simpatico per il resto una noia infinita. La fine delle vacanze era stata una liberazione poi il viaggio sulla nave Tirrenia come incubo finale. Il mese di luglio è il peggiore per i vacanzieri del nord Sardegna, mare spesso brutto, vento e qualche volta giornate quasi invernali. In quell’occasione le previsioni del tempo non erano favorevoli alla traversata, tempo un’ora e avvicinandosi alla bocche di Bonifacio la gente cominciò a vomitare a ripetizione. In pochi minuti la nave diventò una pattumiera piena di dannati che piangevano, si lamentavano e rimettevano il cibo e l’anima. Invano volenterosi marinai coprivano tutto con segatura:, i bar, gli spazi comuni, i corridoi , le cabine, i gabinetti. Non c‘era posto dove mettere i piedi o appoggiare le mani senza sporcarsi. Leo era fuggito dalla sua cabina perché dai letti di sopra pioveva senza sosta una specie di lava umana filiforme ed era finito nel corridoio dove s’era scontrato con una ragazza che, a sua volta, era stata spruzzata dalla zia che sembrava un vulcano in eruzione. Si stava dando una pulitina con la federa di un cuscino strappata al diluvio e si sentiva come l’ultima sopravvissuta alla fine del mondo prima di incontrare Leo. Infatti i due ragazzi, che scoprirono essere coetanei,  non soffrivano il mal di mare e in tutto quel caos avevano mantenuto stomaco e cervello a posto. La nottata passò chiacchierando di mille cose mentre intorno a loro continuava a piovere di tutto. Ma cosa si mangia la gente durante il giorno?  Un incontro fortuito che servì a far passare il tempo: lei si recava a Torino, da parenti che le avevano trovato un lavoro come domestica, l’emigrazione era ancora una delle industrie più fiorenti della Sardegna. Per lei era il suo primo viaggio fuori dal paese, un posto dimenticato da Dio al confine con la provincia di Nuoro, lui invece ormai un navigatore provetto. Anche se non era facile mantenere l’equilibrio, visto il mare agitatissimo, e schivando lanci viscidi dall’alto e pavimenti scivolosi, i due scherzarono e si divertirono a girare in lungo e in largo quell’angolo d’inferno. Quando la mattina la nave, con ampio ritardo, arrivò a Genova non ci fu un normale sbarco ma una fuga precipitosa di uomini, donne e bambini  puzzolenti e distrutti, mente e corpo, sfuggiti  al giudizio universale. Non ci fu neanche il tempo di salutarsi. Solo più tardi, quando salì sul treno che lo riportava a Brescia, Leo si accorse che non aveva neppure chiesto il nome a quella simpatica ragazza. Certo che vivere in quell’isola non doveva essere molto comodo  ma perché preoccuparsi di un posto tanto lontano? 

Di sicuro lui non  sarebbe mai finito a vivere in Sardegna.

NOTE

1)Lo zilleri è una specie di osteria, dove oltre al vino viene servito da mangiare.

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