A Brescia non c'è la nebbia: Cap. 13

 

Capitolo 13°                        Stand by me

Stand by me (1961) di Ben E. King è una canzone che ha segnato un epoca ed è stata interpretata da artisti di tutto il mondo in tempo diversi: uno su tutti: John Lennon ex Beatles. In Italia se ne impossessò Adriano Celentano  con un plagio clamoroso e  cialtrone, infatti la canzone era firmata solo dai compagni di clan del molleggiato, Ricky Gianco e Don Backy, che  si “dimenticarono” degli autori originali.  Pregherò  fu un successo tale da farci i soldi a palate. La canzone ebbe anche un seguito con  Tu vedrai, autore sempre Ricky Gianco che aveva fatto cose più decenti, un pasticcio pseudo religioso con ciechi, allora si chiamavano così perchè non avevano ancora scoperto i non vedenti,  miracolati che vedevano la luce. Cominciava per Celentano la sua trasformazione da cantante a profeta e predicatore di banalità. Peccato perché la sua canzone Il problema più importante per noi è di avere una ragazza di sera (- per me andrebbe bene anche il primo pomeriggio- sosteneva Simone) era l’inno nazionale di tutti i ragazzi imbranati e sfigati, affamati di donne. Sarà stata la stupidità tipica dell’età che in bresciano si dice, con un termine perfetto ma intraducibile, “ stupidera” che non vuol dire stupidità ma passa da quelle parti, in un definito periodo dell’esistenza, tra l’adolescenza e la giovinezza poi per fortuna finisce,  salvo per quelli che sono stupidi per costituzione. Altro elemento di sbarramento erano i foruncoli che, per incontrollabili tempeste ormonali, riempivano il volto di molti maschietti. Le definizioni per le vittime perchè non bastavano i foruncoli ci volevano anche gli sfottò, andavano da “faccia di pizza margherita” al mitico “ Brufolo Bill”. Leo stava in mezzo, il padre gli comprava costose pomate tedesche che mascheravano spettacoli tristi  e volti  depressi. Quando a sedici anni gli tornò il viso liscio come il sedere di un neonato,  Leo rimase incollato davanti allo specchio per giorni ad esaminarsi, incredulo di cotanto miracolo . In fondo, ma molto in fondo, non era neanche brutto.

Stand by me ispirò anche Stephen King per un racconto, uno dei pochi non dell’orrore, che fu portato sullo schermo con il titolo  Stand by me. Ricordo di un’estate. Un film bello e poetico che racconta di una strana esperienza di un gruppo di ragazzi dodicenni. Per  Leo e compagni la canzone fu ispirazione per un gruppo vocale, che per molto tempo ossessionò amici vicini e lontani, compagni di scuola e i tanti cittadini che avevano la sventura di incontrarli per strada.

Stenbaimi divenne così  un tormentone ossessivo e traumatizzante. Vediamo come si costruisce uno ”stenbaimi.” Minimo servono quattro voci poi se se ne aggiungono altre va bene lo stesso. La canzone viene scomposta nelle sue parti musicali essenziali. La batteria ad esempio ha il suono dei piatti (Leo), dei tamburi (Luciano), del basso (Simone), degli effetti speciali (Maurizio); questa era la struttura base per la versione solo strumentale, quando la canzone era anche cantata interveniva anche Carlo con il suo inglese in stile Alberto Sordi  (l’americano di Roma) ma di questo ne parliamo dopo. L’esecuzione del pezzo arrangiato da cotanti musicisti avveniva normalmente per le vie del centro, era una specie di “parapai” in sedicesimo. Ecco una trascrizione  onomatopeica in versione caliniana.

Bum, bum,bum ( basso), scti (piatti), bum  bum (basso) scti (piatti) tum tum (tamburi), shiiing shiiing (violini? Effetti speciali? Boh! Se lo dice lui!).

Così avanti per almeno un paio di minuti. Col tempo i ragazzi divennero  davvero bravi con la loro imitazioni dei suoni degli strumenti musicali al punto che una loro esibizione, sempre e solo strumentale, fu gradita e applaudita dalle loro compagne di classe. E non stavano mentendo. Naturalmente c’era sempre qualcuno, maschietto in genere, che sottovoce borbottava:

 - A me mi sembra una stronzata.- Invidioso e ignorante di musica e della lingua italiana. Meno felice la versione cantata con Carlo che era un vero cane come cantante e come conoscenza dell’inglese,  del resto  loro  erano iscritti nella sezione di francese.

All’epoca ogni cantante straniero che voleva vendere qualche disco in Italia doveva cantare in italiano da  Neil Sedaka a Charles Aznavour.  Basti pensare che anche i Rolling Stones hanno cantato in italiano ( Con le mie lacrime traduzione di  As tears go by 1965). L’inglese non passava nell’ambiente musicale italiano neanche a volerlo: tutti i complessi musicali italiani degli anni sessanta hanno raggiunto il successo con cover di canzoni inglesi o americane: I Corvi, l’Equipe 84, i Dik Dik , i Profeti ed altri. La versione italiana di Lady Jane (1966), una delle più belle ballate dei Rolling Stones è opera dei New Dada. Anche i cantanti fecero man bassa di cover, regolarmente tradotte in italiano: Little Tony, i citati Adriano Celentano e Fausto Leali, Gianni Pettenati, Patty Pravo per indicarne solo alcuni.

Nessuno all’epoca avrebbe mai immaginato che nel nuovo millennio la lingua inglese avrebbe cancellato la lingua italiana con una forma astrusa di anglo-barbaro. Ma la colpa non fu dei pallidi figli di Albione ma di pseudo cantanti analfabeti, di pseudo politici di statura, a loro dire, internazionali e di pseudo giornalisti, più donne che uomini in verità, che anche nel brodo  mettevano un anglicismo al posto del dado. Invece i nostri quattro più chi vuole aggiungersi, cantavano rigorosamente in inglese. La canzone, un rhythm and blues con influenze soul (informazione per solo esperti di musica) all’ascolto suonava più o meno così.

Uen di nait is com, end wei in do…

 ( When the night has come, and the way in dark)

Poi c’era il ritornello:

O dallin, dallin sten bai mi, oh,oh stenbai mi…

(Darlin’ darlin’ stand by me, ooh stand by me….)

A pensarci  bene quei ragazzi avevano anticipato l’inglese all’italiana di oggi. I tormentoni erano uno dei giochi verbali preferiti dai ragazzi di allora; venivano inventati in continuazione e duravano pochi giorni fino alla nascita di uno nuovo. Anche Leo fu “vittima” di un tormentone. Nel 1962 uscì un film francese di grande successo, noiosissimo  come tutti i film francesi dell’epoca:  Cleò dalle cinque alle sette. Per quasi una settimana la domanda che girava fu:

- Qualcuno ha visto Leo?-

-Io. Dalle cinque alle sette.- Lo scherzo poteva anche essere simpatico ma visto che la protagonista (Cleò) stava per morire di cancro, Leo, ad ogni citazione,  si toccava gli zebedei.  Non perché fosse superstizioso ma perché aveva fatta sua la massima di Edoardo De Filippo: non è vero ma ci credo.

Comunque la musica era un elemento fondamentale  nella giornata dei ragazzi di allora, una specie di colonna sonora anche senza le attrezzature moderne di oggi. Un giradischi, un 45 giri e c’era sempre qualcuno che insegnava agli altri passi e danze che arrivano dall’America. Anche la danza di Zorba tratta dal film Zorba il greco (1964) era un film americano anche se tutto era greco (l’attore protagonista era Antony Quinn che faceva  il messicano, il greco e Barabba senza problemi) compreso il sirtaki. La scena dove Antony Quinn balla questa danza popolare, in realtà una creazione di Mikis Theodorakis, è un capolavoro del cinema ma anche una pagina di ballo e di allegria.  Tutti impararono a ballare il sirtaki. Una volta riuscirono a mettersi in fila quasi quaranta tra ragazzi e ragazze e con perfetta coordinazione eseguirono la danza di Zorba, prima lentamente e poi in crescendo fino all’apoteosi finale. La  musica, davvero trascinante, è entrata nel repertorio fisso di molte compagnie di ballo ed è diventata la voce  e l’anima delle molte comunità greche sparse nel mondo. Alcuni anni fa un intero quartiere di Ottawa, quasi interamente abitato da canadesi  di origine greca fu coinvolto, grandi e bambini, in una collettiva e straordinaria danza. Non c’è niente come la musica, per trovare la voglia di stare insieme, di ridere e amare la vita anche quando sembra che non ci sia più niente da sperare. Qualche volta la musica  avvicina al paradiso.

Basta pensare al Bolero di Ravel, una musica speciale secondo Leo, una palla di dimensioni stratosferiche per Luciano, un inno all’infinito per Maurizio che riteneva il brano ad un livello superiore dell’Inno alla Gioia di Beethoven perché la gioia finisce prima o poi mentre l’infinito rimane sempre lontano e irraggiungibile. I pensieri filosofici di Maurizio creavano profondi mal di pancia a Carlo che non voleva uccidere l’amico (si limitava a ferirlo)  ma riteneva fosse musica solo quella che serviva a pomiciare durante il ballo con una ragazza che ci sta. Simone non diceva niente ma una volta gli scappò di bocca che il Bolero era un’ottima cura contro l’insonnia. L’avesse mai fatto, stavano salendo al Castello per una normale passeggiata ma grazie o per colpa di Simone una banale salita si trasformò in un’Ascensione. Maurizio si  mise a suonare il brano imitando uno alla volta tutti gli strumenti e strada salendo cominciò a ballare e volteggiare sui sentieri del Castello. Non era certo la Primavera del Botticelli ma i suoi movimenti avevano una certa grazia e lui aveva in gola un’intera orchestra. Dopo due minuti di silenzio disperato gli amici presero la loro decisione. Carlo si allontanò insieme a Simone perché non potevano farsi vedere in compagnia di uno scemo ballerino e canterino. Leo cominciò a suonare il tamburo, tatatatata-tatatatata-bum per ritmare il brano, Luciano decise di dirigere l’orchestra, si mise davanti e con larghi gesti delle braccia fendeva l’aria come scacciasse invisibili mosche. Da lontano Carlo e Simone scrutavano preoccupati i tre cretini poi decisero che tanto ormai la loro reputazione era rovinata per cui si aggregarono al trio battendo le mani e soffiando su immaginari, flauti, trombe  e tromboni.

Era il primo pomeriggio e c’erano poche persone in giro e quelle poche pensarono che doveva esserci un circo da qualche parte e quei ragazzi stavano facendo pubblicità al loro lavoro, ballando suonando, con la bocca, battendo le mani e i piedi. Ma perché non erano vestiti da pagliacci?

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