A Brescia non c'è la nebbia. Cap. 9

Capitolo 9°      Cronache liceali

Il liceo scientifico Annibale Calini era organizzato come un sistema militare. Ad ogni mancanza seguiva la punizione, guai ad entrare in quella logica o meglio in quel girone infernale perché non esisteva nessuna pietà per gli studenti “sbagliati”. La strada scendeva precipitosamente e alla fine, come traguardo, c’era la bocciatura  e praticamente l’uscita  o meglio l’espulsione da quella scuola.
La classe dirigente doveva difendere il suo potere quindi la selezione era spietata. 
Quando il signor Sanna volle iscrivere il figlio a quel prestigioso istituto lo fece per il più semplice dei motivi: lui che aveva preso la terza media da militare sognava un figlio laureato e all’epoca solo i due licei permettevano l’accesso all’università. Leo aveva un buon curriculum scolastico, le tasse pagate per il profitto perché non credere che il figlio di un modesto lavoratore potesse aspirare ad una posizione migliore nella società?
In realtà solo la riforma della scuola, pochi anni dopo, con la possibilità di iscrizione alle facoltà universitarie, prima poche poi tutte, poteva favorire studi superiori a giovani che fino ad allora erano stati “democraticamente” emarginati.
La scuola per tutti era  un sogno che sembrava impossibile da realizzare e quando il sistema scolastico, e non solo quello, fu messo in discussione, la classe dominante inventò  nuove forme  di discriminazione per le classi meno abbienti. Ci volevano tempo e lotte perché la classe operaia andasse in paradiso perché, quasi sempre, trovava la porta chiusa.
E ancora oggi c’è molta gente che aspetta di entrare.

Leo, entrando nella scuola dei “ricchi” non avrebbe mai pensato di dovere affrontare tanti comportamenti nuovi e, nella confusione di una mente non ancora matura, subire tante sconfitte. 
Ma si cresce combattendo, così almeno si dice. Sarà vero ma strada facendo Leo perse, insieme a sogni ed illusioni, anche molti amici e compagni. 
Uno era Angelo figlio della luna e, per sua dichiarazione,  di un motore a sei cilindri. Il significato di queste sue dichiarazioni, erano incomprensibili a tutti anche perché Angelo, figlio di un ricco commerciante, cambiava continuamente opinione sulle sue origini per cui a volte era figlio del vento o delle maree. 
Per Simone, poco portato alla poesia e alla meditazione trascendentale, Angelo era semplicemente un cretino. Per la cronaca Simone era l’inventore delle definizione (rubata da tutti) di imbecille sferico; in pratica uno che da qualunque parte lo guardi rimane sempre imbecille.
Ma Angelo era un genio, magari di serie B, ma indiscutibilmente genio. Nella cartella lui non portava libri ma una serie di cacciaviti di ogni misura e modello perché Angelo era uno smontatore seriale. Quando aveva smontato il suo banco non era successo niente perché era riuscito a rimontarlo ma quando aveva smontato un calorifero e l’aula s’era allagata si era guadagnato i suoi primi tre giorni di sospensione, con obbligo di frequenza, di una lunga serie. Angelo si era difeso sostenendo che aveva cercato di aggiustarlo perchè non funzionava bene. In realtà in certe giornate invernali era preferibile tenersi il cappotto perché in classe ce n’era da morire dal freddo ma la colpa non era dell’impianto di riscaldamento. 
Angelo era anche un cantautore sui generis. Storpiava cantanti e canzoni e li faceva ascoltare ai disperati compagni tra un cambio di insegnante e l’altro. Il suo pezzo forte era il rifacimento di  Come Sinfonia di Pino Donaggio, da lui ribattezzato Pino Menaggio. Il suo elogio della lasagna  Come la fa la zia era davvero esilarante. Ma nel suo repertorio c’erano anche cantanti come Domenico Mugugno (Modugno) con il grande successo Libero (urlato a squarciagola quando finivano le lezioni) e Gianni Miccia (Meccia) con la classica Pissi pissi, bau bau
Una volta era stato sorpreso dal professore di matematica impegnato in un acuto sul “ Bau”. L’insegnante, senza fare una piega, lo aveva cacciato fuori dicendogli solo:
-Continui ad abbaiare in corridoio.-
Un giorno di sospensione, sempre con obbligo di frequenza.
Ma il capolavoro di Angelo era il rifacimento, mantenendo il più possibile ritmica e metrica, del Lamento per la morte di Ignacio di Garcia Lorca che nella sua versione diventava  Lamento per  la morte di una Ferrari. Dalla Plaza de Toros all’autodromo, da un torero ad un’automobile. 
La poesia, in unica copia scritta su foglio protocollo, fece il giro del mondo studentesco poi scomparve misteriosamente. Peccato era emozionante leggerla a voce alta, con una recitazione alla Arnoldo Foà:
 con il cozzo contro la parete di cemento nemico, 
le urla di dolore del metallo ferito, 
la benzina che come sangue scorre sull’asfalto scuro, 
l’odore aspro delle gomme bruciate dal logorio dei freni, 
impazziti nel tentativo di fermare quella folle corsa. 
Il tutto alle cinque della sera. 
Ahi che terribili cinque della sera! 
Senza la luce accesa del suo corpo vivo, 
del colore rosso  che  sfidava il sole e le stelle!  
No, non ditemi di vederla, 
non posso vedere il suo corpo steso sulla sabbia, 
con le ferite  che bruciano 
e la cancrena che viene da lontano 
mentre il cuore si riempie di agonia. 
Ed erano le cinque a tutti gli orologi, 
erano le cinque in punto della sera.
Purtroppo Angelo passò alla microstoria del liceo Calini per motivazioni meno poetiche. 
L’aula della prima B si trovava proprio sopra l’ingresso, col suo portone monumentale e l’asta portabandiera per esporre vessilli vari durante le feste  civili comandate.
Ci fu un incredibile ingorgo stradale quella mattina in via Monte Suello quando i tanti automobilisti di passaggio videro sventolare sulla facciata del nobile istituto scolastico una gigantesca mutanda da uomo. Pure sporca. Tutta la classe fu sospesa, comprese le ragazze che nel loro silenzio omertoso apparivano come complici del delitto, per una settimana e sempre con quella carognata della frequenza.

Altro ragazzo che durò un solo anno fu Filippo. Lui era il più giovane di tutti perché aveva cominciato a frequentare la scuola con un anno d’anticipo ma era anche grosso, molto grosso: oltre un metro e novanta (a tredici anni!) e pesante in proporzione con la faccia e il cervello di un bambino. In classe, lui da solo occupava due posti, Leo si era sistemato apposta dietro così poteva leggere fumetti o fare parole crociate senza essere visto. Come tutti i gigantoni immaturi Filippo aveva la mania della forza;  sfidava tutti a braccio di ferro dove vinceva regolarmente. Non che i compagni amassero quel tipo di duelli ma l’alternativa era di essere strattonati e spintonati da quella massa, quasi un quintale, di lardo come diceva sottovoce Simone.
Leo aveva sempre rifiutato le sfide di Filippo
-Sei un vigliacco! - Continuava a provocarlo il gigante.
Capirai Davide e Golia! Alla fine Leo cedette ma :
-Le regole le stabilisco io. Niente gomiti appoggiati su un tavolo ma una variante in piedi del braccio di ferro.-
L’appuntamento fu fissato negli spogliatoi della palestra con tutti i compagni  (le ragazze non potevano accedere nel locale quando c’erano i maschi) a fare da pubblico. Tutti scommisero su Filippo esclusi Carlo e Simone.
-Se Leo ha accettato la sfida vuol dire che ha qualcosa in mente.- Pontificò Carlo che aveva cominciato a conoscere l’amico. 
Il gioco era semplice, i duellanti si mettevano uno di fronte all’altro e dovevano appoggiare il loro piede destro uno all’altro e tenere fissa  la posizione, poi tenendosi per mano dovevano spingere, con tutta la forza che avevano, per far smuovere l’avversario dal posto. Vinceva naturalmente chi spostava l’altro. Filippo cominciò a spingere con tutta la sua forza, Leo facendo leva sulla gamba sinistra si spostò leggermente indietro, cominciò a spingere a sua volta per controbattere la pressione di Filippo poi, di colpo, smise di fare resistenza. Filippo spinto dalla sua stessa forza decollò ed andò ad atterrare sopra la fila di armadietti metallici ammaccando un paio di sportelli.
Leo fuggì subito inseguito dall’inferocito Filippo che lo voleva strangolare, sbattere al muro , calpestare e vendicarsi per la sconfitta e l’umiliazione subita.
-Prova a prendermi se ci riesci.-  Lo sfotteva Leo, nella corsa era lui il più forte. Quando Filippo riuscì a calmarsi Leo gli spiegò che:
-L’intelligenza vince sempre la forza bruta.- Poi guardando l’espressione perplessa del gigante gli venne il dubbio di aver detto un’emerita fesseria. La storia racconta altro.   

Nadia invece arrivò il secondo anno, biondissima con un “aiutino” colpì immediatamente i compagni di classe non solo per la sua bellezza appariscente ma per la spregiudicatezza del suo comportamento. Sembrava una diva alla Marylin Monroe, e anche se aveva solo quindici anni, collezionava pose e amori da ventenne.
-Quella scopa come un riccio.- Pontificò subito Carlo guardando con tristezza le altre ragazze della classe tutte rigorosamente vergini. Almeno questa era l’opinione comune.
-Ma tu come fai a saperlo?- Chiese Maurizio.
Carlo manco rispose ma con la sua aria di esperto disse:
-Certe cose si sentono nell’aria. Ma cosa potete saperne voi segaioli tristi.- Qui scattava la litigata, rinfacciare ad un quindicenne vergine e affamato  le sue recondite attività era un’offesa,
-Ma si può sapere perchè hanno chiuso i casini. Proprio quando stavo per arrivare io.- Piangeva Maurizio.
In realtà Nadia era mezza fidanzata con un giocatore del Brescia, uno famoso  e perseguitato dalle ragazzine. All’epoca avere una relazione con una quindicenne non era considerato pedofilia e pensare che la maggior età era fissata a ventun anni. La notizia vera o fantasiosa che fosse aveva provocato molti malumori tra i nuovi compagni che speravano in qualche possibilità in più. 
In realtà Nadia non era mignotta come molti speravano anzi, era solo apparenza e se qualcuno aveva pensato ad una compagna di più facili costumi si era presto rassegnato ed aveva aggiunto Nadia nell’elenco delle compagne e amiche. La ragazza aveva capito che il suo ingresso in quel gruppo aveva provocato oltre a false speranze nei ragazzi anche una buona dose di malumore e gelosia tra le ragazze. Così aveva organizzato una favolosa festa da ballo a casa sua. 
La sua famiglia si era trasferita da poco a Brescia e avevano trovato, per abitazione, solo un attico vicino al liceo.
Il “solo un attico” era un appartamento di 300 mq e terrazzo delle stesse dimensioni in cima ad un palazzo a cinque piani; gli invitati oltre una cinquantina compresi ragazzi e ragazze nuove. 
Il calciatore-fidanzato non si vide perché impegnato negli allenamenti e poi: -Domani c’è la partita!- La notizia non sconvolse nessuno anche perché il calciatore in questione circolava per la città con una spyder americana che aveva fatto venire la bava alla bocca ed anche un principio piccolo, ma molto piccolo, di  infarto, causato dall’invidia, a molti bresciani. Ai compagni di classe di invece non importava niente, mancava qualche tempo per la patente. 
Col tempo anche la fama di fatalona di Nadia si esaurì, il biondo dei suoi divenne più naturale ed anche il grande campione di calcio se ne andò a giocare in un’altra società. Anche Nadia rientrò nei ranghi di brava ragazza e poi si trasferì in un’altra città. Le ultime notizie che Leo ebbe di lei, molti anni dopo, era che era diventata  un’insegnante di storia e filosofia, stronza uguale agli insegnanti che lei aveva contestato da studentessa.

A proposito di insegnanti c’è da dire  che quelli del Calini non erano male, salvo qualche eccezione. Il fatto è che tutti temevano il preside. Quello di matematica, che non era di ruolo, ma lavorava con un incarico annuale, una scelta che era nei poteri del preside, era molto vicino agli studenti, simpatico, cordiale e preparato ma se lo studente, per motivi di condotta, finiva nel mirino del preside, i sei meno non diventavano mai sei ma sempre cinque.
L’insegnante di italiano e latino era invece una megera, accanita fumatrice di nazionali senza filtro, e legata ad una concezione superata dell’insegnamento.  Del resto amava leggere in classe i temi di Italo detto il “baronetto” per la sua aria di superiorità e il suo linguaggio stile ottocento: uno che stava sulle palle a tutti. Una sua frase di un tema, letta con grande enfasi dall’insegnante,  era stata incisa per sempre nella mente di tutti.
“ Appena giunto sulla riva del fiume mi tolsi le scarpe e le calze e, con rispetto parlando, mi lavai i piedi.” Nella prima fila c’erano solo ragazze che avevano imparato a controllarsi mentre nella seconda fila qualcuno ridacchiava. Nelle ultime file qualche altro disse, sottovoce, che poteva anche affogarsi scarpe e tutto. Ma avrebbe aspettato per vedere passare il suo cadavere. 
Simone inventò un nuovo modo di essere meno volgare:
-Andate a fanculo ma con rispetto parlando.-
Leo invece era finito subito nel gruppetto degli invisi all’insegnante. I suoi temi raggiungevano a malapena la sufficienza per la “palese povertà di linguaggio”. Che strano, eppure tutti, durante le elementari e poi nelle medie avevano sottolineato la sua capacità nello scrivere. Così non provò nessuna  meraviglia quando una delle tanti supplenti, visto che la titolare aveva problemi di salute, una mattina decise di leggere un componimento di Leo al quale aveva dato un bel nove. Nessuna meraviglia, dicevamo, ma un grande imbarazzo. Leo non faceva certo parte dei “bravi” e non veniva neppure indicato come un esempio da seguire. Che i suoi scritti fossero invece un buon esempio di scrittura sembrava un fatto stravagante. Del resto neppure Leo, all’epoca, aveva maturato l’idea di diventare, un domani, uno scrittore. Non per sottovalutazione delle sue qualità ma  semplicemente perché non lo sapeva neppure lui. Ancora.

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