Benevento 1996. (R) La notte dei vivi morenti
Da " Cartoline e dintorni". Storie di atletica leggera
Benevento
1996
A Benevento sono andato
per tre anni di seguito dal 1996 al 1998. La prima volta con i miei atleti del
CCRS Sorso, le altre due con le ragazze prestate all'atletica Porto Torres.
L' anno della nostra
formazione, finimmo in un albergo fuori città, appiccicato ad una collina come
un polpo allo scoglio. Aveva un bel nome, che non ricordo, che faceva pensare alle
delizie del paradiso di Allah. Si presentava anche bene. Una specie di torre
multicolore di un numero imprecisato di piani e piante rampicanti come i
giardini pensili di Babilonia. Una volta dentro l'inferno, o meglio il caos,
come nella torre di Babele. Venne subito l' ora della cena, dopo un viaggio
durato un giorno. Piatto unico: una salsiccia lunga un chilometro e sottile
come una matita che doveva sfamare circa duecento persone (c' erano altre
formazioni sfortunate come noi). Dopo una accanita trattativa col proprietario
in cravatta reggimentale e sorriso d' ordinanza, ottenemmo in alternativa una pizza ma solo per pochi
eletti dal Signore. Poi si spense la luce. I più affamati rubarono la salsiccia-stecchino al loro
vicino di piatto e rimasero impuniti a causa del buio. Io avevo ordinato una
pizza che sto ancora aspettando. Quando gli ululati degli affamati atleti
raggiunsero Cartagine, Annibale decise di attaccare Roma. Dalla cucina
provenivano urla e rumori strani di ferraglia. Insieme a pochi coraggiosi
decisi di andare a controllare, a lume di candela, se erano arrivati i carri
armati. La cucina, ultramoderna e tutto acciaio lucente, sembrava devastata dal terremoto (non per
niente eravamo ai confini dell' Irpinia terra di scosse telluriche e di
caciocavalli). Sedute per terra due donne piuttosto in carne, in camice bianco
ospedale e faccia da infermiera sadica, si stavano dividendo le pentole e le
stoviglie. Il cuoco era fuggito oltremare, in esilio volontario, portandosi
dietro una padella per la frittata di cipolle, la fotografia delle “povera
mamma” e un cane pechinese. Il proprietario dell' albergo urlò nel buio, con un
megafono, di stare calmi che tutto era a posto. Fu investito da una valanga di
fischi e di insulti. Qualcuno fece delle
considerazioni maligne sulle attività private della madre e della
sorella. Anche l' ONU decise che tutto era a posto ma loro sono abituati a dire
stronzate. Miracolosamente tornò la luce. Chi aveva mangiato (neanche il 50 %
dei presenti) decise di festeggiare l' avvenimento mentre gli altri si sparsero
per la collina alla ricerca di un negozio aperto per comprare un panino
avanzato, una brioche, delle gomme americane anche masticate, qualunque cosa
potesse azzittire la fame urlante. Niente da fare, tutto chiuso. La città
brillava di luci in fondo alla valle. C' era vita e colore. Noi invece
prigionieri nel castello di Dracula.
La mia squadra maschile
fece amicizia con una squadra femminile siciliana.
L' incontro tra le due
isole gemelle fece accendere l'Etna e tutti i vulcani del Mediterraneo. Ai
ragazzi sardi gli ormoni salirono a mille.
Un mio atleta, sedicente
musicista, salì su un palco improvvisato in fondo alla sala da pranzo, si
impossessò di una chitarra e intonò una canzone che non sono riuscito a riconoscere.
Due ragazze siciliane se lo mangiarono con gli occhi. Cantava come un cane
investito da un TIR ma era bello. Tutti
gli altri si lanciarono in danze selvagge da far crepare d' invidia le tribù
dei Mau Mau e le discoteche di Rimini. Spaventato, mi limitai a gridare:
- Ragazzi, pomiciate con
decenza.-
Poi partì di nuovo la
luce. A fianco all'albergo c' era un ristorante (che faceva parte dello stesso
complesso) dove da dodici ore
festeggiavano un matrimonio. La notizia riaprì il cuore alla speranza
degli affamati e degli sfigati che tanto
le donne non li cagano mai.
- Si mangia!-
Una pia illusione.
Duecento invitati provenienti dall'Africa più affamata si erano preparati per
una settimana all' evento. Non era rimasto più niente.
Un'orda di barbari ignari
si riversò fuori con la scusa di fare gli auguri ai novelli sposi. Questi erano
appena fuggiti anticipando di un giorno il viaggio di nozze. Infatti, quando un
invitato, talmente ubriaco da fare schifo anche a Bacco, approfittando del
buio, aveva cercato di togliere alla sposa , oltre alla giarrettiera anche le
mutande, c' era stata una vibrata protesta dei familiari della vittima e una
conseguente fuga generale perchè nel buio, calci e pugni non facevano
differenza tra colpevoli e innocenti. Qualcuno si portò via tutte le
bomboniere, anche quelle vuote perchè altri s' erano già rubati i confetti; le
donne s'impossessarono dei fiori che decoravano la sala per portarli alla
Madonna di Pompei. Fu come un segnale di via in una gara di Formula Uno. Chi rubò
una sedia, chi le posate, chi le tovaglie. Quattro ragazzotti stavano sudando
intorno ad un juke-box che non voleva entrare nella macchina. I quadri di padre
Pio furono tra i più ricercati. Due gentili signore si stavano accapigliando
per uno specchio con cornice in gesso dorato. La lotta finì quando ad una delle
duellanti uscì dalla scollatura una tetta gigantesca che fulminò due dei miei
ragazzi e li lasciò in trance per mezz' ora. Invano i camerieri cercavano di
mettere ordine in quella bolgia infernale. Infine si arresero. Svuotarono il
frigorifero e se ne andarono a casa. Per noi, arrivati troppo tardi, non era
rimasto niente, neanche le candele. La proprietaria del ristorante era seduta
sul bordo del muretto in pietra grezza che si affacciava su un precipizio. Non
piangeva neppure. Sembrava la Madonna dei Sette Dolori a cui avevano annunciato
l'arrivo dell' Ottavo.
La notte incombeva su di
noi come un uccello rapace in cerca di preda. Quali altri orrori ci attendevano
?
Tornò ancora una volta la
luce. Ritrovai il mio piglio di condottiero di armate Brancaleone e spedii in
camera loro tutti i ragazzi, compresi
quelli delle altre squadre. Ci fu solo mezz' ora di pace.
A Giacomo M. si allagò la camera per primo (nel mio bagno
l' acqua era un ricordo del passato) poi, in sequenza, gli altri gabinetti si
ribellarono al loro triste destino. Rivoli d' acqua scorrevano nei corridoi.
Chi si era appena insaponato per la doccia, chi doveva sciacquarsi la bocca,
chi era rimasto a metà bidè. Salvatore F. stava armeggiando intorno ad uno
scaldabagno con funzioni solo decorative. Nella piazza principale del paese
(quella struttura alberghiera al decimo (?) piano era stata ideata come un
paese con stradine su piani diversi e
camere che si affacciavano
all' interno) ci fu l'
assemblea dei profughi. Noi dirigenti decidemmo che non potevamo restare
un' altra notte in quell'
albergo; la mattina saremmo fuggiti tutti con la scusa che una strana epidemia
di caccarella aveva colpito tutte le nonne degli atleti e dovevano rientrare a
casa per fare le pulizie. Ma intanto la notte doveva ancora
passare. Molti ragazzi e ragazze si erano preparati per dormire. Alcune
ragazze, in corte camicie da notte stavano facendo venire la bava alla bocca
anche ai più tranquilli. Decidemmo di organizzare delle ronde per impedire
baccanali, ratti delle Sabine e quant'altro di pecoreccio la storia di Roma
aveva insegnato ai ragazzi. Di qui non si passa, come gli eroi del Piave camminavamo su e giù per i confini
della Patria controllando che nessuno lupo uscisse dalla sua tana a caccia di
pecorelle (molto disponibili peraltro). La luce andava e veniva a suo
piacimento. Quando infine giunse l' alba, noi adulti eravamo degli zombi. Senza
mangiare, senza dormire e qualcuno senza andare di corpo, perchè i bagni erano
come il delta del Po dopo l'alluvione. Ma la castità era salva. Quando i
ragazzi si svegliarono, qualcuno disse allegramente:- Ci siamo veramente
divertiti.-
Se il pensiero è un
reato, allora mi sono guadagnato l'ergastolo.
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