Oh che bel cappello...
di Leo Spanu
Quando ero giovane ( durante i "favolosi" anni 60) mi piaceva andare a teatro, naturalmente
in loggione visto che i miei mezzi finanziari non mi permettevano posti nei
palchi o in platea. A volte ci si annoiava mentre si aspettava l’inizio dello
spettacolo; infatti per trovare un buco decente in piccionaia ( leggi
loggione) bisognava presentarsi un paio d’ore prima ed aspettare con fila lunga e paziente che neanche i
pensionati alle poste il giorno della pensione. A volte per riempire i tempi
dell’attesa si dava un’occhiata verso il mondo di basso dove i ricchi
rappresentanti della nuova industria bresciana potevano appoggiare le loro
riverite chiappe sui velluti delle poltrone color rosso granato. Noi in alto, studenti
squattrinati, operai , e lavoratori con una punta di vera cultura in più
rispetto ai loro sottostanti datori di lavoro ( allora si chiamavano padroni)
si discuteva di tutto un pò. A mio modesto parere il Teatro Grande di Brescia
si chiama così non tanto per le qualità artistiche delle sue architettura o per l’acustica ma per la gente che lo
frequentava durante le stagioni teatrale, operistica e sinfonica. Una volta ( mi spiace ma non ricordo lo spettacolo, forse c'era Gino Cervi protagonista) entrò in
platea una gentile e matura signora che si presentò con marito che tutti ignorarono, abito
di lusso dal costo di due stipendi mensili di metalmeccanico ed un enorme cappello tipo ombrellone da spiaggia come se ne vedono ancora in Versilia.
Era di un color giallo come il sole della campagna bresciana quando non è
incazzato e non si nasconde dietro la nebbia. Ci sono pensieri ed ispirazioni che nascono contemporaneamente come se fossero instillate nella mente degli uomini da un dio malizioso; così tre o quattro ragazzi cominciarono a cantare una vecchia filastrocca con una
piccola modifica verbale:
"Oh che bel cappello marcondiro-ndiro-ndello,
oh che bel cappello marcondiro-ndiro-ndà.
Ma il mio è ancor più bello marcondiro-ndiro-ndello,
il mio è ancor più bello marcondiro-ndiro- ndà."
"Oh che bel cappello marcondiro-ndiro-ndello,
oh che bel cappello marcondiro-ndiro-ndà.
Ma il mio è ancor più bello marcondiro-ndiro-ndello,
il mio è ancor più bello marcondiro-ndiro- ndà."
I cantanti divennero dieci,
cento, duecento e anche più ed un coro celestiale si levò dal teatro fino al cielo ( oltre il teatro). Il direttore
artistico della Scala di Milano decise di licenziare in tronco il suo coro per
assumere in blocco il loggione canterino dei cugini bresciani. Erano perfetti per l’aria del
“ Va pensiero su l’ali dorate, sui capelli argentati e sulle scarpe chiodate”.
La signora dal largo cappello si guardò intorno; prima scrutò il marito e gli amici, poi i vicini di poltrona. Cercò inutilmente aiuto. Era un sorriso di solidarietà o di scherno quello che leggeva nei loro occhi? Intanto il coro aveva raggiunto le pendici delle Alpi. Il marito dell’infelice signora decise che non poteva aspettare un decennio l’approvazione del divorzio per sciogliere quel matrimonio che stava naufragando nel ridicolo. Poteva licenziare i suoi operai a decine, nelle sua fabbrica di Lumezzane ma non riusciva a licenziare una sola moglie. Dopo due minuti di:
" E noi lo ruberemo marcondiro-ndello e poi lo bruceremo marcondiro-ndà"
la signora cominciò a pensare seriamente al suicidio. Quei barbari là in alto non smettevano di cantare. Anche il coro degli alpini decise che potevano aggiungere quella canzone al loro repertorio. Loro il cappello lo avevano già ed anche la penna in più. Dopo tre minuti, un tempo infinito per chi soffre, la signora si tolse il cappello è uscì dalla sala con lo stesso umore che aveva Napoleone a Waterloo. Nessuna pietà per i vinti. L’applauso che seguì l’uscita di scena della signora senza cappello fu una standing ovation. Gli attori, protagonisti dello spettacolo vero, ne pretesero uno uguale alla fine.
“ Va pensiero su l’ali dorate, sui capelli argentati e sulle scarpe chiodate”.
La signora dal largo cappello si guardò intorno; prima scrutò il marito e gli amici, poi i vicini di poltrona. Cercò inutilmente aiuto. Era un sorriso di solidarietà o di scherno quello che leggeva nei loro occhi? Intanto il coro aveva raggiunto le pendici delle Alpi. Il marito dell’infelice signora decise che non poteva aspettare un decennio l’approvazione del divorzio per sciogliere quel matrimonio che stava naufragando nel ridicolo. Poteva licenziare i suoi operai a decine, nelle sua fabbrica di Lumezzane ma non riusciva a licenziare una sola moglie. Dopo due minuti di:
" E noi lo ruberemo marcondiro-ndello e poi lo bruceremo marcondiro-ndà"
la signora cominciò a pensare seriamente al suicidio. Quei barbari là in alto non smettevano di cantare. Anche il coro degli alpini decise che potevano aggiungere quella canzone al loro repertorio. Loro il cappello lo avevano già ed anche la penna in più. Dopo tre minuti, un tempo infinito per chi soffre, la signora si tolse il cappello è uscì dalla sala con lo stesso umore che aveva Napoleone a Waterloo. Nessuna pietà per i vinti. L’applauso che seguì l’uscita di scena della signora senza cappello fu una standing ovation. Gli attori, protagonisti dello spettacolo vero, ne pretesero uno uguale alla fine.
La regina Elisabetta d’Inghilterra è famosa per gli
improbabili cappelli. Ma anche le sue fedeli suddite non scherzano; in
occasione di importanti manifestazioni come l'appuntamento annuale di Ascot (una corsa di cavalli), si mettono in testa di
tutto: animali domestici come gatti, cani, conigli, canarini, pappagalli e fagiani; animali in estinzione come panda. koala, bradipi, fenicotteri; pentole, padelle, tegami e carabattole
varie prese dalla cucina del re; poi ancora fiori dalle rose alle gardenie passando per i garofani e i gigli di mare; e che dire della frutta dai lamponi ai cocomeri, alle banane alle mele verdi (ideali per lo shampoo), ai fichi secchi e alle pere. Sulle verdure ci sta tutto, un vero mercato ortofrutticolo, infatti credo da qui derivi il famoso detto dei cavoli a merenda. Che non c'entrano niente come i cappelli che le gentili signore delle foto si mettono in testa.
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